Tempo di sagra

Poi arrivavano i suonatori. La parte del leone nell’orchestra la faceva di solito la fisarmonica, a cui si aggiungevano la tromba, il clarino, il violino e il cantante.
La piantaforma era quadrata, recintata su tre lati, da quello aperto entrava la gente per ballare. Visti gli avvallamenti del terreno, le assi della pista venivano appoggiate su travi per ottenere un perfetto piano orizzontale. Una volta montata, la piantaforma veniva cosparsa di cera affinchè i ballerini scivolassero meglio quando ballavano.
Tutto attorno alla pista venivano poste panche e sedie, pronte ad accogliere le mamme che avevano accompagnato le figlie al ballo e vigilavano.
Il loro spasso più grande era guardare e criticare ed erano molto prese da questo compito, perché quello che vedevano sarebbe stato l’argomento principale di conversazione per il resto dell’anno. E di cose in quelle sere ne succedevano.

Mi ricordo che un anno, in paese si era parlato molto di una coppia di fidanzati: lui, lontano per lavoro, aveva saputo da qualche anima premurosa che la sua morosa era andata a ballare e lui l’aveva lasciata senza darle alcuna spiegazione.

Una volta tornato, proprio in occasione  della sagra, il caso volle che il giovane incontrasse, in prossimità della piantaforma la sua ex; l’atmosfera si fece tesa, non si sentiva volare una mosca, il silenzio era totale, neanche i musicisti suonavano più, tutti aspettavano; erano l’uno di fronte all’altra, lei con un nuovo cavaliere, lui attorniato dagli amici. Il giovane fu il primo a rompere il silenzio e con un’aria di sfida le disse: “Ah, buonasera!”. Ma quel buonasera si capiva bene che voleva dire: “Ma vara che brava, alora avevin rason chi ca mi à scrit che i ti ti la spassavi!” .

Lei, bellissima, con i capelli rossi raccolti  in una coda di cavallo, alta, slanciata, con addosso un vestitino uguale a quelli sopra descritti, lo fissava a sua volta, furente. Tutti gli occhi erano adesso puntati su di lei, e lei, senza esitare, fece un passo avanti e gli disse “Buonasera” e senza aggiungere altro gli assestò uno schiaffo in pieno viso e aggiunse: “Ti i ti lu sa parchè che i ti lai dat… e scoltimi sercia di stami ala largia pì che ti puol e se par disgrassia i vessin da incontrassi, fila via di corsa, no vuris ca mi ciapas il mat e che ti des un spudon in tal musu”. Poi si girò e disse al suo cavaliere: “Din Alfredo, din su a ballà che stasera ai na vuoia mata di divertimi!”. Detto e fatto; ballò tutta la sera mentre lui rimase immobile  per un paio di secondi, come paralizzato; poi fece il gesto  di andarle dietro, ma fu trattenuto dai suoi amici e trascinato via. Lo vidi più tardi che cantava assieme a loro, ubriaco fradicio, ma si sa: “dopu na planduda a ven sempru na riduda”.

Non potei fare a meno di pensare che le comari avrebbero avuto di che spettegolare per un bel po’, parteggiando chi per lui, chi per lei, ma si sa quelle erano faccende di paese, faccende di sagra.

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