Realtà locale Archivi

0

Il past (il pranzo di nozze)

Nell’immediato dopoguerra, negli anni che vanno, grosso modo, dal ‘45 al ‘55, sia il rinfresco, sia il pranzo di nozze venivano fatti in casa; naturalmente, per l’occasione si mobilitava tutto il vicinato con richieste di tovaglie, tovaglioli, posate, pentole, piatti, bicchieri e bicchierini, il tutto rigorosamente contrassegnato, onde evitare litigi quando avveniva la restituzione. Le liti però nascevano lo stesso, regolarmente, vista la furbizia delle donne, che non aspettavano momento migliore per poter scambiare, ad es., un tovagliolo macchiato con uno  perfettamente pulito.

I preparativi incominciavano una quindicina di giorni prima della data prefissata; i genitori degli sposi si riunivano e decidevano il menù.

Quello tipo era :

rinfresco:

  • Vermut con savoiardi, caffé, vino bianco, grappa.

pranzo:

  • Antipasto – salame, pancetta, ossocollo, con giardiniera o insalata russa.
  • Primo – minestrina in brodo con pastina (con il passare degli anni arrivarono anche i tortellini).
  • Secondi – lesso di gallina e di tacchina, a volte anche manzo, accompagnati da giardiniera, cren e patate lesse; arrosto di pollo, di faraona, d’anatra, d’oca (naturalmente venivano scelti e portati in tavola solo due degli arrosti succitati); più tardi arrivò anche l’arrosto di vitello.
  • Contorni – spinaci al burro (di rigore!), insalata con ravanelli (in primavera), radicchio con le “frisse” (in autunno), patate al forno.

Con le pietanze si serviva il pane e mai polenta (al massimo la si portava in tavola con il formaggio, alla fine del pranzo). La preparazione del rinfresco e del pranzo veniva affidata ad un cuoco o ad una cuoca.

Il giovedì, prima del sabato, giorno stabilito per il matrimonio, incominciavano le pulizie della casa; si partiva normalmente dalla cucina, di solito molto grande che ospitava la stufa, el spoler, che misurava almeno 2,5 metri di lunghezza e 1,5 di larghezza, dove sarebbe stato cucinato il pranzo. Bastavano una imbiancata ai muri, mastellate d’acqua sul pavimento, che era di cemento grigio, con sfumature rosso scuro verso le pareti, una pulitina ai vetri; per l’occasione si cucivano anche tendine nuove. Una volta pulita, si riempiva questa enorme stanza con i tavoli, a seconda del numero degli ospiti.

Il venerdì si passava poi a riordinare il cortile; per prima cosa si rinchiudevano le galline nel pollaio, poi si riparava la stropa (la recinzione del cortile, fatta di pali di salice, tagliati a misura d’uomo e legati, uno vicino all’altro con fil di ferro, anche il cancello era fatto allo stesso modo); si spazzava poi il cortile con grosse scope di saggina; l’operazione veniva ripetuta il sabato mattina, dopo aver fatto abbeverare le mucche, che, si sa, ritornando dalla fonte alla stalla, lasciavano sempre un regalino per strada.
Sempre il venerdì, venivano ammazzati i capi di pollame e raccolte e pulite le varie verdure. Quindi tutti, uomini, donne e bambini, avevano il loro bel daffare, ma per fortuna, a quei tempi, le famiglie erano molto numerose.

Il sabato mattina, verso le 5.30, arrivava la cuoca e, per almeno due ore, era indaffarata a tagliare e a squartare i polli, le galline, le anatre e i tacchini e a scegliere i pezzi per le varie ricette.

0

Mondina

  • MONDINA: località della frazione di Bagnara
    L’origine del nome si può individuare nel termine MONDARE, cioè pulire, diserbare, in riferimento alla bonifica della zona.
  • Via Ponzanis: la tesi corrente è che il nome sia di derivazione latina, esattamente derivante dal nome latino PONTIUS. Esso è comunque l’unico nome di origine romana presente nel territorio di Gruaro.
  • Via Macchiavelli Nicolò (Firenze 3/5/1469 – 22/6/1527): scrittore e politico. Segretario della 2a cancelleria della Repubblica fiorentina (1498/1512), compì numerose missioni diplomatiche in Italia e all’estero. Tornati i Medici a Firenze fu costretto a lasciare la vita politica. Si dedicò pertanto alla stesura delle sue opere maggiori: “Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”, “Il Principe” e i dialoghi ”Dell’arte della guerra”; in esse è contenuto il suo pensiero politico. Nel “Principe”, per la prima volta si ha la precisa formulazione della necessaria distinzione tra la sfera etica e quella politica. L’opera ebbe un’immensa risonanza e fu messa all’indice nel1559 con l’accusa di empietà ed immoralità. Nel 1520 il cardinale Giulio de’ Medici gli affidò l’incarico di redigere la storia di Firenze; ne nacquero le “Istorie fiorentine” opera in 8 libri, rimasta incompiuta.
    Di valore anche la sua produzione letteraria: commedie come la “Mandragola” e “Clizia” e il poema “L’asino d’oro” testimoniano il vivo interesse di Macchiavelli per le questioni linguistiche e il suo sostegno al fiorentino contemporaneo.
  • Via Guicciardini Francesco (Firenze, 6/3/1483 – Arcetri, 22/5/1540): politico e storico. Ambasciatore della Repubblica fiorentina in Spagna, dopo il ritorno dei Medici a Firenze divenne, per incarico del Papa, governatore (1516/1526) di alcune province dello Stato Pontificio. Divenuto responsabile della politica estera della Curia, ebbe un ruolo di primissimo piano nell’organizzazione della Lega di Cognac (1526) contro Carlo V. Nel 1531 fu al servizio dei Medici. Si ritirò a vita privata nel 1537.
    Il suo pensiero politico e la sua concezione storica sono contenuti principalmente nei “Ricordi” dove traspare il suo scetticismo sulla possibilità dell’uomo di poter intervenire sulla realtà e quindi dell’inutilità di elaborare modelli d’interpretazione globale della stessa.
    In questo senso si opponeva al suo contemporaneo Macchiavelli. La sua opera più significativa resta la “Storia d’Italia” (1537/40) che consta di 20 libri nei quali sono presentati gli avvenimenti intercorsi tra la discesa di Carlo VIII nel 1494 e la morte di Clemente VII 1534. L’opera rappresenta il primo tentativo di tracciare una storia politica di respiro europeo.

[print_link]

0

Lucia Pellegrin

Anche quella di Lucia Pellegrin, come molte di quelle che abbiamo testimoniato in queste pagine, è la storia di una passione che, nata inconsapevolmente sui banchi di scuola, è esplosa irrefrenabile circa 20 anni fa (nel ’88 per la precisione) ed ha costretto la nostra protagonista a fare i conti con essa.

Lucia ama il teatro, quello dialettale in particolare, non si limita a recitare, ma scrive anche  i testi dei suoi spettacoli, ne cura la regia ed idea e progetta scenografia e costumi. La fase che mi incuriosisce e mi affascina di più di questo suo teatro amatoriale, e glielo dico, è quella ideativa, in particolare quella della stesura del testo, che, una volta pronto, lei propone poi con la sua compagnia, “La Lanterna”, ad un pubblico affezionato ed attento, che la segue da parecchi anni, riempiendo numeroso le sale (mi ha parlato, in alcuni casi, anche di 700 persone). Lucia soddisfa la mia curiosità e dice che lei, autodidatta, prende ispirazione per le sue storie, rivelando peraltro buone doti di affabulatrice, dalla vita paesana, soprattutto quella del passato, dal mondo contadino e, per fare questo, attinge ai suoi ricordi, a quelli dei suoi familiari e delle persone anziane in genere che lei contatta con grande affabilità e tatto. Il suo quindi oltre che di scrittura  è anche un meritorio lavoro di ricerca e salvaguardia che raggiunge l’obiettivo di salvare dall’oblio e di rivitalizzare momenti e figure della nostra vita quotidiana passata.

Per mantenere vivacità ed immediatezza sulla scena a ciò che ha raccolto, Lucia utilizza, come già ricordato, il dialetto gruarese, (affine ad alcune varietà di friulano della Bassa), rinnovandone così l’ascolto se non l’uso. A questo punto del nostro incontro le chiedo come mai, fino a questo momento, viste le sue capacità e risorse interpretative, non abbia mai pensato di fare il salto di qualità, come forse un po’ impropriamente  l’ho chiamato, recitando sì testi dialettali ma d’autore.

Lei, con grande semplicità ma anche determinazione, mi ha confessato che non ama recitare testi altrui, ma soprattutto che in uno dei primi corsi di teatro da lei frequentati, c’è stato un regista, di cui non ricorda il nome, che ha suggerito a loro allievi, come prima regola per ottenere un buon prodotto, di cimentarsi solo in quello in cui erano preparati e “questo- aggiunge Lucia- mi è sembrato un saggio consiglio che non ho mai abbandonato e che mi ha sempre aiutato ad ottenere risultati apprezzabili; perché -aggiunge Lucia- raccontare la vita paesana è ciò che mi riesce meglio, ciò in cui mi sento più a mio agio, perchè è una materia che padroneggio, di cui conosco molte sfaccettature; inoltre -continua- rimanendo legata al territorio, rispondo concretamente alle richieste della gente, che sembra aver bisogno di un collante, dato dal ricordare insieme”.
Soffermandoci ancora sul suo teatro e sulla funzione che esso riveste all’interno di una comunità, Lucia sottolinea ancora una volta la valenza socializzante della sua esperienza e ribadisce che “è importante radunare la gente e farla lavorare assieme”; ricorda, a questo proposito, alcune rievocazioni storiche e Via Crucis, realizzate a Gruaro e a Pramaggiore, che hanno visto coinvolto un buon numero di abitanti dei due paesi e “quando questo accade, provo -dice Lucia- una grande soddisfazione che mi ricompensa di tante fatiche”.

A riprova poi di quanto la gente ami questo tipo di teatro legato al territorio e come a questo lei si senta legata, Lucia aggiunge che le arrivano richieste per i suoi spettacoli da tante località del Friuli e del Veneto, richieste che non può al momento soddisfare completamente per tutta una serie di problemi organizzativi, ma poterlo fare sarebbe per lei il “salto di qualità”.

Mi rimane ancora un’ultima curiosità e le chiedo come mai, nel rappresentare il passato abbia privilegiato la dimensione comica, ma lei mi risponde che non si tratta di un effetto cercato, ma che questa comicità nasce spontaneamente dalle situazioni che rappresenta: lei si limita a pensare ai personaggi e poi i dialoghi vengono di conseguenza.

Per concludere le chiedo di ricordare alcuni titoli delle sue pièces teatrali che riporto qui di seguito:

“Cà comandi mi”
“El figar stà a vardani”
“La vedova blancia”
“Li feri d’agost”
“Quatru fiis in età di morous”
“Giulieta e Romeo”
“La ciasa del nonu”
“Barbablù”.

e allora noto che Lucia si è cimentata anche con Shakespeare, di cui ha ridotto e tradotto in dialetto “Romeo e Giulietta” così anch’io, anima un po’ snob, sono soddisfatta e ricordo che ha fatto lo stesso anche Luigi Meneghello in “Trapianti”, quindi… brava, Lucia.

Sito ufficiale: (pagina facebook)

0

Arianna Giuseppin

Ho esitato a lungo su come articolare il mio incontro – intervista con Arianna: da un lato avrei voluto cominciare da lontano, quando l’ho conosciuta sui banchi di scuola, ed aveva già la sua bella personalità, ma poi ho pensato che era più giusto e consono al nostro scopo concentrarsi sul presente, sull’Arianna restauratrice entusiasta e competente che afferma con convinzione che questa è la sua prima passione (anche se ricorda che ama anche dipingere e creare ceramiche), quella per cui ha dato e dà “corpo e anima, perchè quando le cose piacciono, non ci sono mezze misure….”.

Il suo interesse per questa branca dell’arte è iniziata già sui banchi del Liceo artistico, dove aveva scelto questo indirizzo, e si è poi consolidato, finiti gli studi, con la frequenza di un corso specialistico, a numero chiuso, organizzato dal FAI. Dopo questa formazione è entrata a far parte della DIEMMECI, società specializzata nel restauro, (da quello degli intonaci antichi a quello lapideo, a quello ligneo, a quello degli affreschi ecc.) con la quale ha preso parte a parecchi cantieri, interessandosi sempre prevalentemente di affreschi, ricoprendo anche ruoli di responsabilità, come ad Oderzo, A Cà Contarini, dove é stata capocantiere, o a Portogruaro (restauro facciata di Casa Gaiatto), gestito con una sua collega, esperienza quest’ultima che ricorda con particolare piacere. “Alla mia formazione -dice Arianna- ha senz’altro contribuito l’Umbria, terra d’origine di mia madre, e che io considero la mia patria artistica; qui ho trascorso, fin da piccola, lunghi periodi e qui, dove tutto ti parla d’arte, torno sempre quando ho bisogno di ricaricarmi. A Deruta poi ho seguito dei corsi di ceramica, dove ho appreso le tecniche antiche, ma la mia produzione si discosta da quella tradizionale, ha un taglio moderno e punta soprattutto sulla ricerca delle forme”.

0

Marinella Falcomer

Questo più che il profilo critico di un’artista, Marinella Falcomer appunto, nostra concittadina, è il racconto di una passione profonda, vera, totalizzante, quella che anima appunto la nostra protagonista e la lega indissolubilmente alla pittura.
Marinella racconta, con vivacità e spontaneità che conquistano, di come si sia sentita attratta verso il disegno e l’arte figurativa fin da piccola, di come, appena ne avesse la possibilità, scarabocchiasse a matita, sopra un album, i ritratti di tutti quelli che le venivano a tiro, e di come l’avesse riempita d’orgoglio vedere esposto per tanto tempo un suo disegno nell’atrio della Scuola media di Teglio Veneto, suo paese d’origine; ma aggiunge anche che in famiglia non prendevano molto sul serio questa sua passione: un hobby va bene, ma incentrare tutta la propria vita sulla pittura, no, perchè, aggiunge Marinella, suo padre le ricordava spesso che, così facendo, si finiva sotto un ponte.
Quindi, finita la scuola dell’obbligo, ecco un corso di qualificazione professionale e l’ingresso nel mondo del lavoro in un campo, quello dell’acconciatura, che aveva pur sempre qualcosa di creativo, che lei accentuava, nei ritagli di tempo, con i ritratti delle sue clienti.

La svolta nella vita di Marinella avviene tra il 1997/8, quando, dopo la morte del padre, sente che ha bisogno di riempire il senso di vuoto che la pervade e, appoggiata dal marito e dalla figlia, decide di riprendere in mano il suo antico progetto: studiare pittura.

Lo fa con umiltà, serietà, consapevolezza; il desiderio di imparare la rende audace; ricorda, sorridendo, di come avesse trovato il coraggio, nonostante molti la sconsigliassero, di chiedere a Monsignor Pellarin, parroco del duomo di Portogruaro, di darle alcune lezioni di ritratto e di come lui, dopo aver visto alcuni suoi lavori, avesse accettato e le avesse insegnato non solo la tecnica, ma suggerito anche un atteggiamento mentale, quello di mettersi in gioco con serenità, di avere fiducia in se stessa, di affrontare il giudizio degli altri, fossero essi addetti ai lavori o gente comune… Questa lezione le è rimasta dentro, le ha dato forza e, ancora oggi la molla che la fa agire è il desiderio di misurarsi con se stessa e con gli altri per raccogliere sì consensi, ma anche consigli e critiche in un’ottica di evoluzione e ricerca continue.

0

Rina Menardi

Conoscevo Rina Menardi come concittadina, mamma attenta e presente; sapevo della sua attività nel campo della ceramica e da tempo apprezzavo le sue creazioni.
In realtà non conoscevo l’artista; incontrandola e conversando con lei, ho potuto scoprire prima di tutto una persona, dotata di un animo sensibile e positivo.
Direi che la sua creatività nasce da lì, e non potrebbe essere altrimenti, dal momento che ella stessa dice: “Quello che crei rispecchia quello che sei”.
Rina infatti, è un’artista che vive in stretto rapporto con la natura, da cui trae ispirazione per creare le sue forme, pure ed essenziali, capaci di evocare sensazioni sopite.
Il suo imprinting artistico inizia da lontano, quando ancora piccola, osservava affascinata il nonno lavorare alla fucina.
Ricorda che, a parte alcuni corsi di ceramica, frequentati a Perugia e a Faenza, la sua è stata una evoluzione completamente personale, fatta di ricerca e sperimentazione sui materiali, forme, colori, modi di lavorare, andando a riscoprire anche tecniche di lavorazione antiche di duemila anni.
Le sue ceramiche rappresentano insieme arte, design ed artigianato e sono caratterizzate dall’unicità, per forma e colore in ogni singolo articolo. Tutta la produzione è infatti interamente fatta e decorata a mano.

“I riconoscimenti ottenuti, se da un lato mi hanno gratificata, dall’altro mi hanno caricata di responsabilità, dice Rina, ma questo è stato l’inizio di un’avventura impegnativa ed affascinante nello stesso tempo.”
“Così a poco, a poco, il mio laboratorio è diventato una piccola azienda che, sotto la direzione commerciale ed amministrativa di mio marito Valter Milanese, coinvolge oggi una decina di persone.”
“Non è stato facile e non è facile tuttora che operiamo in spazi più ampi; l’impegno profuso rimane sempre molto alto, poiché la nostra realtà, seppur piccola, ha in sé tutta la complessità di un’azienda più grande.
Rivolgendoci a una nicchia di mercato, prevalentemente di fascia alta, è infatti richiesta semestralmente la costante presenza, con nuovi articoli, in fiere internazionali quali Milano, Parigi, Francoforte (un po’ come nella Moda) con un impegno organizzativo non indifferente.

Considerato che tutto quello che comporta il progetto, quali ricerca, ideazione, design, immagine, partecipazione ad eventi fieristici, produzione commercializzazione, logistica ed amministrazione, avviene autonomamente, l’impegno è veramente notevole.”
La produzione è tutta destinata direttamente ai negozi finali: circa l’ 80% al mercato internazionale e il 20% a quello nazionale; nella nostra zona è presente a Portogruaro da “Lan-gola” via Spalti 48 – angolo S.S. Martiri).
In Internet, utilizzando un motore di ricerca (ad esempio Google) e digitando “Rina Menardi”ci si può fare un’idea del suo lavoro.
L’anima di tutto è e resta lei, Rina, che riesce a trasmettere ai suoi collaboratori la sua stessa forza creativa facendo appello alla responsabilità e allo spirito d’iniziativa di ciascuno.

Sito ufficiale

[print_link]

0

Un fotografo dall’occhio da scultore

Il 24 giugno 2005, è stata inaugurata a Chicago, alla FLATFILEgalleries, la mostra fotografica personale di Claude Andreini, nostro concittadino, dal titolo evocativo “METROPOLIS”.
Riportiamo di seguito la critica della curatrice Susan Aurinko, in collaborazione con il Dr. Michael Weinstein – Prof.  di Scienze Politiche alla Purdue University di Chicago.

“Claude Andreini è un modernista, che realizza immagini nella più grande tradizione lineare, con una composizione formale e senza necessità di spiegazioni.
Nonostante l’autore dichiari a proposito del lavoro METROPOLIS che esso è nato da considerazioni ambientaliste, alla fine risulta che Andreini realizza delle foto assolutamente magnifiche della stessa realtà, quella urbana, che intendeva criticare. A lui è impossibile scattare una fotografia che non sia equilibrata alla perfezione. È in questo modo che funziona il suo occhio ultrapreciso. Che siano fotografati nudi, elementi architettonici, ambientazioni urbane o lugubre camere di campo di concentramento, Andreini rappresenta i suoi soggetti con una purezza e un rispetto estremi. Affiora nell’insieme della sua opera una comprensione della forma e della superficie che nasce dai suoi studi di scultore.

Il corpo del lavoro intitolato METROPOLIS, rivolto all’evocazione di distese urbane e dell’assenza di natura, osanna invece la bellezza lineare della città. Gli angoli sono utilizzati al meglio per creare immagini che mostrano il paesaggio urbano come un mondo di strutture monumentali di acciaio e di vetro, simili nella loro essenza, a delle sculture che si drizzano verso il cielo. Immensi pannelli pubblicitari, mostrando visi enormi, giustapposti all’architettura aggiungono una strana umanità a questo ambiente peraltro sterile. Quando appaiono individui, le loro sagome sono indistinte, spettrali, e si muovono dietro una lastra di vetro traslucido lavorato. In un caffè all’aria aperta, ombrelloni sistemati in cerchi concentrici nascondono ogni essere  suscettibile di pranzare al loro riparo, mostrando di nuovo una versione surrealista della città, priva dalla gente che la crea e l’abita. Un po’ come se la città sorgesse dalla terra completamente formata, senza l’aiuto delle popolazioni, tanto le sue strade sono vuote in queste fotografie sconcertanti.” (…)

(trad. Selim e Indira Chanderli)


0

A proposito di “Metropolis”… intervista a Claude Andreini

Ho incontrato Claude Andreini al ritorno da Chicago e gli ho posto alcune domande, allo scopo di evidenziare e di meglio capire la genesi, le motivazioni e le intenzioni comunicative ed artistiche che stanno alla base di questo suo lavoro di fotografo ed artista.

Come è nata Metropolis?
“L’ispirazione per questo mio lavoro è nata visitando tante città europee, grandi e piccole, dove ho avuto la sensazione che l’architettura moderna, rigorosa, funzionale, fatta di materiali  lisci e duri, come l’acciaio, brillanti e trasparenti come il vetro, non fosse affatto accettata. Idem per altre strutture, magari antichizzanti, segni di passata ricchezza, ma non certo di socializzazione; perciò al piede di slanciate torri di cristallo, l’impiegato si rifugia a sorseggiare una bibita sotto ombrelloni di paglia; lo stesso avviene nel cortile, circondato da imponenti colonne greco-romane, di un museo; sui muri poi di centinaia di appartamenti, appollaiati gli uni sugli altri, campeggiano manifesti di persone sorridenti… e così via.”

Mi sembra di capire che quello che rappresenti nelle tue foto è un ambiente urbano, alienante, che genera disagio.
“Sì, le immagini vogliono evidenziare proprio il malessere dell’uomo a vivere in strutture che non sono consone per la vita naturale a cui aspira. Esse tentano di dimostrare che la scelta è stata sbagliata e che, individualmente, nel suo piccolo, ogni individuo cerca di ricrearsi un angolo a sua misura.”

Hai colto questo stesso disagio di abitare anche a Chicago?
“La stessa domanda mi è stata fatta anche da Michael Weinstein, giornalista-filosofo americano, nel corso di una intervista, ed ho dovuto rispondere che no, non avvertivo nel paesaggio urbano americano quel disagio palpabile che avevo testimoniato con le mie foto. In effetti, la vista delle formidabili torri di Chicago, città simbolo dell’architettura americana, (grazie alle opere di Van Der Mies e Wright, fra gli altri), non mi ha fatto cogliere la stessa sensazione che mi aveva colpito in Europa. Lì, il cittadino non sembra per niente soffrire dell’assenza di dimensione umana, nonostante tutto sia enorme, gigantesco, smisurato. Forse per l’assenza di radici antiche, la modernità è totale, dalla testa ai piedi, senza compromessi: niente ombrelloni di paglia, niente bar “esotizzanti”, nessuna nostalgia affidata a poster di Lawrence d’Arabia. E quindi non ho potuto confermare la mia tesi con altri scatti americani.”

Questa tua affermazione mi sembra un po’ controcorrente.
“Ribadisco che questa esaltata struttura architettonica non ha tolto umanità ai rapporti tra cittadini. Da tanto tempo avevo dimenticato il saluto sistematico di sconosciuti quando entri in un negozio; la conversazione con estranei che, curiosi, ti chiedono cosa stai fotografando sul marciapiede; la moneta che ti rendono sul palmo della mano e non sul freddo vetro del banco; o lo scambio di biglietto da visita quando inviti una persona, mai vista e conosciuta prima, alla tua mostra. Insomma ho avuto la sensazione che effettivamente ci sia a Chicago un “homo diversus” da quello europeo, adattato alla struttura della città. Di conseguenza, per integrare e sviluppare, per contrasto, la mia tesi, ho fatto foto di quella architettura, di quelle persone, di quella modernità.”

Sarà possibile vedere allestita anche qui da noi qualche tua mostra?

“Ottobre 2005: New York. 2006: Chicago e Ginevra.
Sono quindici anni che le mie opere sono inserite in collezioni pubbliche e private internazionali e che insegno ed espongo fotografia in giro per il mondo, ma mai ho avuto la possibilità di farlo a Gruaro. Il perchè…”

Ultimo lavoro visibile: http://www.photodigitalgrosseto.com

Sito ufficiale

[print_link]