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L’oca

“Se nu ti magni i ti imboconi coma una oca!”

Questa, anni addietro, era una frase ricorrente ed era rivolta naturalmente ai bambini che non volevano mangiare. La povera oca in questione mi ha fatto sempre tenerezza, sin da quando ero piccola e mi veniva affidata, assieme alle “sorelle”, perché la portassi a pascolare dove l’erba era più tenera.
Loro mangiavano ed io restavo là seduta a guardare le nuvole e a fantasticare; ma naturalmente avevo anche  con me un centrino da ricamare per evitare di restare inoperosa (cu li man in man).
Il tempo passava loro crescevano ed io con loro; arrivava così l’autunno ed incominciava l’ingrasso.

“I ti ai da imparà a imboconà li ochi”.
Non era un suggerimento ma un ordine, al quale non avevi nessuna possibilità di sottrarti e quindi prima lo eseguivi meglio era.
La maestra di solito era una nonna o una zia “vedrana”, a me invece toccò uno zio abbastanza avanti con gli anni, grande e grosso, “un tocon di om”, e con la gentilezza di un orso che un giorno mi disse “Ven par cà! Ti vuol imparà a imboconà li ochi. Ti lu fai viodi.”

Il tono non ammetteva repliche pertanto lo seguii nel recinto delle oche e per darmi un contegno e far vedere la mia buona volontà mi misi a rincorrerne una, con l’intento di prenderla.
Al che l’omone, con un grugnito che voleva essere una risata, mi bloccò e mi fece cenno di scansarmi e “Fermiti! Si ti li fa cori cussì a se ca serf imboconali?”
E mentre diceva questo, trac, aveva già afferrato il collo lungo e piumoso dell’oca. La mia oca! Quella che avevo coccolato sin da piccola; il mio cuore si fermò… “La mia oca, no!” urlai dentro di me; ma lui, imperterrito, si avviò verso il sotpuartin, una tettoia posta a ridosso della stalla, sostenuta da pali di legno e con il tetto ricoperto da canne (ciani cargani e cianoi).

Arrivati sul posto, sempre gentilmente, si fa per dire, lo zio mi sbatté l’oca in braccio; preoccupata mi chiesi “Perché?”. Il perché fu presto spiegato: lui doveva prepararsi per il rito dell’“imboconadura”. Lo vidi mettersi un grembiule lungo e largo, fatto con avanzi di stoffa cuciti insieme, praticamente un nisuol, perché per coprirlo tutto quel suo pancione ci voleva veramente un lenzuolo.
Finita la vestizione, gettò un sacco di iuta per terra e ci mise accanto uno strano imbuto che nella parte superiore, in corrispondenza dell’imboccatura, aveva una manovella, come quella del macinino del caffè, ci aggiunse un secchio d’acqua ed uno di mais. Tutto era pronto.
Lo zio si inginocchiò e mi disse di passargli l’oca. Io gliela porsi, esitante e lui se la strinse tra le gambe. Io preoccupata esclamai dentro di me “Uddiu me la sclissa!”.

L’oca si dibatteva, ma lui le afferrò la testa e gliela tenne ferma, le aprì il becco a forza e le infilò lo strano imbuto in gola; con la mano libera raccolse un pugno di mais, lo mise nell’imbuto e cominciò a girare velocemente la manovella finché il mais non fu sceso tutto, completò l’operazione facendole ingoiare un mestolo d’acqua.
Gli feci osservare che il mais si era fermato tutto in un solo punto del collo del volatile. “Sta tenta coma ca si fa!”.
Lo zio allora con la mano libera e con la grazia infinita delle sue dita grosse come salsicce, manipolò con destrezza il collo fino a far arrivare il mais nel gozzo della povera oca. Poi, senza tanti complimenti, si alzò e con un cenno perentorio mi indicò il suo posto dicendomi: Vidin se che ti à capìt.

Io, non so perché, ma  mi sentii sollevata nel vedere che la mia oca non era più sotto quella montagna d’uomo e che adesso toccava a me: sarei stata senz’altro meno violenta… e mi venne, dalla gioia persino voglia di cantare e così feci, mi misi a cantare. La mia oca, secondo me, fu felice di quel cambio, perché mi mostrai all’altezza e in un baleno e con grande dolcezza portai a termine quella tortura.
Naturalmente l’operazione si ripeté anche nelle sere successive fino a che le oche non furono ritenute pronte, belle e grasse, per la mattanza.

Forse oggi tutto questo può sembrare crudele, ma erano comportamenti dettati dalla necessità: il grasso d’oca era pregiatissimo e veniva usato al posto del burro; il fegato poi, un boccone da re, e la carne, a cui veniva data una mezza cottura, era riposta in orci di pietra, ricoperta del suo grasso e messa sotto un metro di terra. Una vera risorsa prelibata per l’inverno e la primavera, per le famiglie numerose.

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San Lazzaro degli Armeni

Quasi di fronte all’imbarcadero di Santa Maria Elisabetta, fermata principale del Lido di Venezia, verso Ovest, si trova l’isoletta di San Lazzaro degli Armeni, definita da uno dei maggiori poeti del novecento, Aldo Palazzeschi, “isoletta venuta dall’oriente galleggiando, e rimasta incantata davanti a Venezia”.

Questa perla della laguna, trascurata in passato dalla storia e dagli uomini ma rimasta immutata nonostante il passare del tempo, è stata presa in cura e salvata dall’erosione della salsedine e dal disinteresse, da pochi monaci armeni che fecero di questo spicchio d’oriente uno dei più importanti centri di riferimento culturale e religioso per il popolo armeno.

Breve storia dell’isola:

  • 810: un abate del monastero benedettino di sant’Ilario di Fusina riceve in affidamento l’isolotto dalla Serenissima repubblica di Venezia.
  • 1182: viene trasferito l’ospedale dei lebbrosi di San Trovaso e l’isola prende il nome di San Lazzaro, protettore dei lebbrosi (vedi la derivazione del termine “lazzaretto”).
  • Fu in seguito costruita la prima chiesa, dedicata a San Leone Magno, e in seguito la chiesa attuale dedicata a San Lazzaro.
  • 1300: venne costruito un lazzaretto.
  • Prima metà del ‘500: il Senato della Repubblica vi trasferì i poveri della città, dato che i lebbrosi ospitati si erano ridotti a poche unità. Quando poi i poveri furono trasferiti a San Zanipolo a Venezia, vicino all’attuale Ospedale Civile, l’isola fu abbandonata.
  • Nei secoli successivi: comunità di religiosi vi soggiornarono per brevi periodi.
  • 1717: finalmente un nobile monaco armeno, Mechitar (che significa il “consolatore”), fondatore poi dell’Ordine dei Padri Armeni Mekhitaristi, chiede di potersi stabilire con i suoi 17 monaci (tutti fuggiti dalla persecuzione turca che imperversava ad Istanbul), con l’intento futuro di ospitare gli esuli armeni.

Un melograno, albero nazionale armeno, sarà il primo incontro quando si esce dall’imbarcadero.

Nella parte nord dell’isola si possono ammirare i bellissimi giardini che conducono ad un piccolo cimitero delimitato da file di cipressi, ulivi e cedri. Un sentiero che costeggia il muro di cinta riserva in lontananza, da un’angolazione poco conosciuta al turismo di massa, un’indimenticabile vista del bacino di San Marco. Nella parte meridionale filari di pini riparano dal vento della laguna le preziose aiuole di rose che i monaci coltivano gelosamente e il loro intenso profumo inebrierà il visitatore. Quello che più emozionerà in questo magico luogo, dove si percepisce il respiro dei secoli, sarà l’ospitalità e la simpatia con cui i monaci accolgono i visitatori, accompagnandoli alla scoperta dell’isola, dei suoi tesori e della storia del loro popolo, fornendo tutte le spiegazioni alle domande che saranno rivolte.

Alla fine della visita non resta che portare nelle proprie case un ricordo di questo splendido luogo, come ad esempio un vasetto della deliziosa e profumatissima marmellata di petali di rosa, colti al sorgere del sole, come vuole la tradizione, preparata dai monaci stessi: un piccolo, dolce assaggio del profumato e prezioso oriente.

La messa con rito cattolico armeno si celebra ogni domenica alle ore 11.00.

Mechitar:

Mechitar fece riedificare la chiesa e il convento, ingrandì di quattro volte l’isola fino agli attuali 3 ettari, raccolse importanti opere della cultura armena, tradusse in armeno moltissimi libri di scienza, letteratura, archeologia e religione. Nel 1798 viene fondato un centro poligrafico per stampare tutte queste opere soggette a traduzione, centro che per fortuna riuscì a sfuggire all’azione distruttrice anticlericale di Napoleone, poiché il centro grafico fu considerato “accademia letteraria”.

Cosa si può visitare:

  • La chiesa: in stile gotico, ricostruita nel XIX secolo, a tre navate, con abside decorata a mosaico, nella quale si svolgono suggestive cerimonie religiose; da visitare il chiostro rinascimentale con porticato.
  • Il monastero: edificato nel XVIII secolo, dove una lapide ricorda il poeta e politico inglese Lord Byron, amico del popolo armeno. Lord Byron, che soggiornò in quest’oasi di pace e qui studiò la lingua armena collaborando alla stesura di una grammatica per gli studiosi inglesi, viene ricordato in una mostra permanente.
  • Il museo: dove sono conservati reperti raccolti dai monaci o ricevuti come regali nel corso dei secoli. Si contano oltre 4.000 manoscritti armeni che vanno dal VI al XVIII secolo (la più importante e ricca collezione di manoscritti armeni dell’occidente) e molti manufatti arabi, indiani ed egiziani, tra cui la curiosa mummia di Nehmeket del 1000 a.C..
  • La pinacoteca: raccoglie opere di scuola veneta e armena del XVII e XVIII secolo. Si possono ammirare opere di Palma il Giovane e un bellissimo affresco del Tiepolo.
  • La biblioteca: contenente circa 200.000 volumi ! Pare che in un’ala segreta della biblioteca si trovi la più grande raccolta al mondo di testi di magia nera: addirittura si favoleggia che alcuni tomi sarebbero rilegati con pelle umana.

Per chi volesse visitare questo splendore ecco gli orari dei battelli. Si ricorda che c’è una sola visita guidata al giorno, che si svolge alle ore 15:00, in coincidenza con l’arrivo del vaporetto che lascia San Zaccaria alle 14:30.

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Fotografia contemporanea emergente: Valentina Brunello

All’interno del progetto Spazi Pubblici Arte Contemporanea (SPAC), la Neo Associazione Culturale, con sede a Buttrio (Ud), ha proposto a partire dal 7 novembre 2009 la mostra “Specchio Specchio delle mie Brame chi è il più Artista del Reale?”, riflessione sul recente lavoro di alcuni tra i più interessanti artisti visivi operanti in Friuli Venezia Giulia.

Per i quattro sabati consecutivi del mese di novembre, dal 7 al 28, gli appassionati d’arte contemporanea, o anche semplicemente curiosi o amanti dei siti storico-artistici della regione, hanno potuto seguire le fasi d’inaugurazione della mostra. Alcune tra le opere più significative prodotte in regione negli ultimi dieci anni sono state rivisitate nel contesto di palazzi, ville, castelli: nella settecentesca Villa Di Toppo Florio a Buttrio (Ud) dal 7 novembre al 6 dicembre, in Palazzo Orgnani – Martina a Venzone (Ud) dal 14 novembre al 6 dicembre, nel medievale Castello di S.Pietro a Ragogna dal 21 novembre al 20 dicembre e a Palazzo Locatelli (Museo Civico del Territorio) a Cormòns (Go) dal 28 novembre al 27 dicembre.

Il comune denominatore degli undici artisti presenti in mostra, al di là dell’appartenenza generazionale, di corrente, ecc, è la costante attenzione alle contraddizioni del presente e l’inequivocabile emergenza, nelle loro opere, di forti segni della contemporaneità; a presentarli, altrettanti curatori, critici, organizzatori culturali, giornalisti.

In questa direzione ho scelto di esporre il lavoro della fotografa Valentina Brunello, vincitrice nel 2008 del secondo premio al concorso ManinFesto, indetto dal Centro d’Arte Contemporanea Villa Manin di Passariano (Ud), con la direzione artistica di Francesco Bonami. L’artista nasce a Gorizia nel 1970, dove tuttora vive e lavora; parallelamente agli studi in architettura presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, approfondisce l’interesse per la fotografia, sviluppando diverse tematiche che vanno dal paesaggio al ritratto.

Sin dai primi scatti analogici in bianco e nero, la sua attenzione è rivolta principalmente ai soggetti architettonici e al paesaggio urbano; in sintonia con il proprio percorso di studi è portata ad osservare gli elementi particolari e dettagliati che connotano lo spazio delle città, e all’interazione dell’uomo con essi. Da questi concetti nascono la serie in bianco e nero Segni urbani, e quella a colori Frammenti urbani.
Se in questi primi due lavori la presenza dell’individuo è fisicamente assente, nella serie in bianco e nero Street photo, realizzata in parallelo a Frammenti urbani, le persone diventano quasi sempre le protagoniste, colte in attimi di vita nella relazione naturale con gli spazi circostanti.

Da questa ricerca rivolta all’uomo, i suoi interessi si sono indirizzati verso il tema del ritratto con la serie Ritratti (Tracce) che mostra volti e corpi sfuggenti, rarefatti ed isolati da qualsiasi contesto. Successivamente si è rivolta al ritratto di famiglia, analizzando le tematiche dei rapporti interpersonali, in particolare tra madri e figli. Proprio quest’ultimo progetto, Interno di famiglia, ha messo in risalto le doti della fotografa, portandola ad ottenere il secondo premio al concorso ManinFesto – Fotografia in Friuli Venezia Giulia del 2008 (Villa Manin Centro d’Arte Contemporanea, Passariano-Codroipo, Udine).

Il progetto nasce da una ricerca rivolta alla maternità e al rapporto che si viene a creare tra la madre e i propri figli. L’artista irrompe delicatamente nelle abitazioni private di amici e conoscenti, mantenendo un distacco rispettoso nei confronti di questi luoghi così intimi, in cui ogni oggetto e ogni spazio è il riflesso delle personalità di chi lo abita. Ne risulta un’indagine socio-antopologica sul tema della famiglia, dove è inevitabile per il fruitore spingersi a ricercare le relazioni tra i diversi soggetti ritratti, i rapporti che intercorrono tra loro e il background di ogni nucleo.

Nelle serie fotografiche realizzate dall’artista non vi è alcuna finzione nel senso cinematografico del termine, non esiste sceneggiatura, non vengono create delle sovrastrutture ideologiche; vi è una sensibile aderenza alla realtà, in una narrazione che non può essere compresa e vissuta se non per esperienza diretta. Un genere di analisi documentaria, che testimonia la consapevolezza e l’attenzione della fotografa alla riflessione sul proprio tempo.

Una maturità artistica quella di Valentina Brunello alimentata da una naturale e costante ricerca, che è in primo luogo una risposta ad una necessità ed esigenza personale; in equilibrio tra introversione e disincanto si relaziona con curiosità allo spazio che la circonda e a come questo diventi habitat e specchio dell’uomo, in un continuo e perenne scambio a cui nessun individuo può sottrarsi.

Documentazione on line:
per la mostra: www.spacfvg.it
per l’artista: www.valentinabrunello.eu

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“Antichrist” di Lars Von Trìer

Impossibile prescindere dal regista per parlare di questo film.
Lars Von Trier: cosa dire su quest’uomo che non sia già stato detto? Provocatore, genio, venduto al mercato, fallito, arrogante, pervertito…
Personaggio quantomai controverso, fuori dagli schemi del sistema filmico, ma contemporaneamente così addentro al sistema filmico da capire perfettamente quali leve toccare per promuovere i suoi lavori. Le sue poliedricità ed irriverenza, la sua ossessione per le regole, la sue fobie, ne fanno un artista che spicca per meriti (ha contribuito a risollevare l’asfittico cinema danese degli anni ’90 e posto le basi per un certo tipo di cinema europeo, vedi i fratelli Dardenne), ma che nel contempo lo rende insopportabilmente autoreferenziale ed arrogante.
Von Trier è un dandy moderno, nel senso più ampio del termine, ma anche un’artista fondamentale e non trascurabile del panorama cinematografico europeo, che ad ogni opera innova e rinnova il proprio stile, non lesinando di chiedere uno sforzo allo spettatore che si avvicini alle sue produzioni.
Tutto ciò è quantomai valido per l’ultimo suo film: “Antichrist”, presentato alla 62esima edizione del Festival di  Cannes (2009) e che pur suscitando ilarità in parte del pubblico, rappresenta fuor di dubbio una summa del cinema e della psicologia del “personaggio” Lars Von Trier, indubbiamente mai così a nudo.
Non a caso il film è stato presentato anche come il racconto catartico del periodo di depressione del regista.
Ed infatti quello che viene messo in scena in “Antichrist” è un vero e proprio percorso psicanalitico, sia per la presenza del personaggio “lui” (psicoanalista che tenta di curare la moglie), sia perché carico di figure dell’onirico e dell’inconscio, di simbologie biblico-cristiane, di superstizione medievale (forse l’elemento più debole, in verità), e finanche per la precisa divisione della pellicola in momenti distinti e conseguenti: prologo, quattro capitoli (dolore, pena, disperazione, i tre mendicanti), epilogo.
Partendo dal canovaccio di una coppia che perde un neonato a causa della propria sventatezza e dal dolore provocato da questa perdita e dal tentativo di superarlo affrontandolo quanto più possibile in maniera razionale, Von Trier affronta i temi tipici del suo cinema, ma lo fa in una maniera più “candida” del solito: il dolore, la violenza, la giustapposizione tra i generi maschile e femminile, l’ipocrisia della coppia, il viaggio come ricerca inevasa di pace, sono qui rappresentati come una sorta di “fenomenologia dello spirito” inversa, tramite la quale perdono via via di senso concetti come “umanità” e “speranza”.
Infatti i protagonisti, diventati simboli di questa diarchia tra l’uomo e la donna, ma anche tra l’utopia che la razionalità possa vincere sull’animalità dell’essere umano, perdono via via l’uno nell’altra la compiutezza della propria esistenza, svelando finalmente l’ipocrisia che mina la loro vera natura.
Se quindi il tema principale dovrebbe essere quello dell’elaborazione di un lutto, Von Trier in realtà mette in scena l’essere umano, ed in particolare le seguenti tematiche: il rapporto controverso con e per le donne, l’ossessione disturbante del sesso, la trivialità e violenza intrinseche nella psicologia umana, l’angoscia per l’inevitabile divenire, la spinta alla mutilazione genitale ed all’autolesionismo come riscatto dalla debolezza delle carni.
In questo senso il film è disperatamente violento, un colpo allo stomaco, ma non per la presenza delle pur abbondanti scene di violenza, orrore o sesso (nelle quali peraltro non viene risparmiato nulla), quanto per il progressivo ed inarrestabile disvelamento della natura umana che viene messo in atto: a precipitare nella follia dei “tre mendicanti” (dolore, pena, disperazione, per l’appunto) non sono solo i protagonisti, ma siamo noi in quanto “umanità”.
In tale ambito vengono altresì inseriti: il rapporto conflittuale casa/natura, l’eterno contrasto tra pulsione, desiderio ed i costrutti razionali dell’individuo, il rifiuto del proprio corpo e del corpo di donna in particolare, la visione della maternità come dannazione, insomma in questo film ci sono tanti e tali spunti di riflessione che l’elenco potrebbe essere lunghissimo e l’analisi sconsideratamente prolissa.
Infine almeno un cenno è necessario fare al contrasto tra la sublime fotografia curata da Anthony Dod Mantle e le scene più crude, all’uso del rallenty a sottolineare i momenti più liricamente elevati, allo splendido bianco nero che caratterizza il prologo e l’epilogo, all’azzecatissimo uso dell’aria “Lascia ch’io pianga” dal Rinaldo di Georg Friedrich Händel; sta di fatto che Antichrist è il film tecnicamente meglio realizzato e diretto dal regista danese. Il punto però è che il livello di impegno richiesto per la visione è tale che è facile indurre lo spettatore al rifiuto dell’opera. La normale “sospensione dell’incredulità” non è infatti qui necessaria, perché da subito il “patto artista-pubblico” è: o mi segui per tutto il tempo, fino in fondo, o prendi tutto come un’immane, grottesca scemenza ed allora è meglio che non prosegui oltre. Una sorta di “patto di fede”, anche se ciò che ne segue è veramente l’anticristo: siamo soli, non c’è salvezza, non c’è speranza.
Ancora una volta Von Trier spiazza tutti e costruisce un film profondo, impermeabile alle critiche. Film dell’anno 2009.

P.S. Magnifici (e coraggiosi) gli attori: il premio a Cannes per la migliore intepretazione femminile a Charlotte Gainsbourg è ultra-meritato!

scheda film su IMDb

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Che Paese, l’Italia!

Ma in che Paese viviamo? L’Italia sta andando alla deriva?

Si sta registrando un degrado etico-sociale mai avvertito prima; la nostra Costituzione continuamente calpestata se non violata nei suoi principi fondamentali, democrazia, libertà, uguaglianza che si fondano sulla dignità della persona, di qualunque persona.
Razzismo, omofobia, violenza, bullismo, non rispetto delle regole e dell’ambiente, sembrano aver sostituito  senso civico e solidarietà, smentendo la tradizionale accoglienza dimostrata dagli Italiani nel corso della propria storia.

Come mai? Non basta cercare le cause nella crisi economica e neppure dire che è colpa della TV e della stampa. (Certa stampa comunque, non è priva di responsabilità, se pensiamo alle campagne diffamatorie a carico di personaggi più o meno noti!)
Si è parlato tanto dell’esclusione del Crocefisso dagli edifici pubblici e nel contempo la nostra classe politica pare fare un uso spregiudicato di una sottocultura qualunquista e demagogica che sdogana le peggiori istanze di una minoranza razzista, omofoba, xenofoba e violenta.
Giovani dotati, senza prospettive,  devono abbandonare l’Italia per potersi costruire un futuro, poiché nel proprio Paese valgono più la raccomandazione, le conoscenze, il nepotismo piuttosto che il talento. Altro che Meritocrazia!

Basta assistere a qualunque “dibattito” politico per capire, anzi non capire in che Paese viviamo! La verità non è mai stata così contraddittoria; tutti sembrano aver ragione e nel contempo avere torto. Eppure la classe politica che ci governa sostiene di agire nell’interesse e nel nome del popolo italiano da cui pare abbia avuto una delega “in bianco”.

Un radicale ricambio dei nostri rappresentanti politici, più lontani dalle ideologie, dai propri interessi e privilegi personali e più vicini agli interessi veri della collettività, forse porterà maggiore fiducia nelle Istituzioni e quindi maggiore partecipazione e consapevolezza della gente al vivere comune.

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Com’è morto Stefano Cucchi?

“Ho avuto modo di vedere le foto della salma di Stefano Cucchi, 31 anni, morto in circostanze tutte ancora da chiarire nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini di Roma. È difficile trovare le parole per dire lo strazio di quel corpo, che rivela una agonia sofferta e tormentata. È inconfutabile che il corpo di Stefano Cucchi, gracile e minuto, abbia subito a partire dalla notte tra il 15 e 16 ottobre numerose e gravi offese e abbia riportato lesioni e traumi. È inconfutabile che Stefano Cucchi – come testimoniato dai genitori – è stato fermato dai carabinieri quando il suo stato di salute era assolutamente normale ma già dopo quattordici ore e mezza il medico dell’ambulatorio del palazzo di Giustizia e successivamente quello del carcere di Regina Coeli riscontravano lesioni ed ecchimosi  nella regione palpebralebilaterale; e, la visita presso il Fatebenefratelli di quello stesso tardo pomeriggio evidenziava la rottura di alcune vertebre indicando una prognosi di 25 giorni. È inconfutabile che, una volta giunto nel reparto detentivo dell’ospedale Pertini, Stefano Cucchi non abbia ricevuto assistenza e cure adeguate e tantomeno quella sollecitudine che avrebbe imposto – anche solo sotto il profilo deontologico – di avvertire i familiari e di tenerli al corrente dello stato di salute del giovane: al punto che non è stato nemmeno possibile per i parenti incontrare i sanitari o ricevere informazioni da loro. È inconfutabile che l’esame autoptico abbia rivelato la presenza di sangue nello stomaco e nell’uretra. È inconfutabile, infine, che un cittadino, fermato per un reato di entità non grave, entrato con le proprie gambe in una caserma dei carabinieri e passato attraverso quattro diverse strutture statuali (la camera di sicurezza, il tribunale, il carcere, il reparto detentivo di un ospedale) ne sia uscito cadavere, senza che una sola delle moltissime circostanze oscure o controverse di questo percorso che lo ha portato alla morte sia stata ancora chiarita.”

Luigi Manconi

Quando mi è stato chiesto di scrivere  per la Ruota, mi si è posto un problema: cosa scegliere fra i problemi della cultura sottoposta a faziosità politica, della  politica concentrata sul sesso e sulla sua richiesta di disuguaglianza istituzionale, dell’affondamento della democrazia e della libertà di espressione, dei drammi idro-geologici in quanto cronache di morti annunciate o della bella ripresa di potere della mafia che continua a “trattare” con i Governi eletti da decenni.

Tuttavia, osservando l’elenco appena steso, mi sono reso conto che  la morte di Stefano Cucchi poteva rappresentare la quintessenza, la somma di quanto citato prima: l’inesistenza dello STATO DI DIRITTO.
Cucchi era un ragazzo senza potere, senza soldi, senza amici alto locati, senza amici mafiosi. Esattamente come la stragrande maggioranza di noi. Entrato in una caserma per un reato minore  sulle proprie gambe, in buona salute, è uscito poco dopo da un ospedale morte per gravi contusioni e fratture vertebrali non sottoposte ad adeguate cure.

Stefano è morto come tanti altri nelle prigioni di Pinochet, come nella famigerata Lubjanka del KGB, trattato come i prigionieri di Guantanamo o i fellagha della guerra d’Algeria. Ma dove siamo? A Guantanamo?
No, siamo in Italia, dove un’altra morte  di prigioniero non dovrebbe essere messa a tacere come quella del povero vigile trasportato d’urgenza dalla Sardegna, per una scazzottata, con tanto di elicottero militare, caduto in mare prima del suo arrivo in carcere!

Domande:

  1. Ricordando lo scandalo  provocato dalle manette messe ad un parlamentare ai (bei) tempi di Mani Pulite, come posso accettare che un cittadino non solo venga ammanettato, ma anche ucciso da chi lo ha fermato?
  2. Il ragazzo è stato duramente picchiato: da chi? Ma la domanda altrettanto importante è: che non ci sia nemmeno un solo testimone che abbia tentato di impedirlo, di salvarlo? Insomma una giustizia di “branco”?
  3. Chi ha colpito rappresenta lo Stato, che dovrebbe essere il mio garante?
  4. Portato in ospedale, non è stato sottoposto a cure e lasciato morire. I medici cosa o chi stanno coprendo?
  5. Il ragazzo non ha nemmeno potuto contattare la famiglia. Una famiglia che affida il suo ragazzo allo Stato e lo recupera sfigurato e con sangue nello stomaco e nell’uretra (calci nella pancia e sicuramente nel basso ventre) Ma che razza di medico lavora in quelle Istituzioni!!!? Per fortuna che il detenuto era ricoverato nella struttura sanitaria del Fatebenefratelli!!! Hanno fatto bene le cose, certo!

La lettura delle varie domande non lascia spazio a dubbi: siamo in uno Stato che non riconosce l’uguaglianza dei cittadini: c’è chi  è rispettato e chi non lo è.

Quali sono i parametri di rispettabilità in Italia?
Siamo in uno Stato che è rappresentato in da persone indegne, persone che dovrebbero loro essere dietro le sbarre. Che ci finiscano.
Siamo quasi certi che mai la luce completa sarà fatta. Solo uno Stato forte ammette le proprie colpe. Qui abbiamo solo uomini forti che usano uno Stato debole.
Che sia un dramma annunciato? Quando si sa che la mafia  tratta con i Governi per gestire le carceri e la disciplina interna, mi sembra ovvio.
L’evento sarà rapidamente insabbiato sotto una crosta di scandali politici a base di soubrette, di partite di calcio,  di gare di auto ed eventi porno mondani, ciò che proverà non solo il controllo politico della Giustizia, ma anche la scarsa libertà di espressione, confermata dalla nostra 77esima posizione in materia nella graduatoria internazionale.

In teoria, la speranza dovrebbe nascere da una presa di posizione chiara, forte,  inderogabile di una Chiesa che si dice  protettrice dei deboli. Purtroppo nemmeno da questa parte sento parole dure e richieste di indagini immediate.

Cucchi è morto. Speriamo che non si  “accerti” che è caduto dalle scale o che si è suicidato.
La prima ricostruzione assolverebbe lo Stato e la seconda chi fa più politica che applicazione del Vangelo.

il blog di Ilaria Cucchi

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Il Muro (di Berlino…) 1989-2009

Attenti, perché a quel muro tutti noi eravamo aggrappati. Con questo ammonimento Giulio Andreotti smorzò il giustificato entusiasmo che contagiò il mondo occidentale nei giorni che seguirono la caduta del muro di Berlino. Il coro dei media, dei politici, degli intellettuali non perdevano l’occasione per cantare le magnifiche sorti e progressive del mondo ora liberato dall’incubo rappresentato dal comunismo. Fine della tensione internazionale, della minaccia nucleare, la pace duratura come orizzonte, apertura dei mercati, opportunità di ricchezza e occupazione per tutti, insomma: un futuro più roseo di ogni ottimistica previsione sino ad allora propagandata.

Ma quel muro materializzava l’equilibrio precario del mondo. Ad esso erano aggrappati la Casa Bianca e il Cremlino, la CIA e il KGB, i paesi satelliti aggregati nel Patto Atlantico e nel Patto di Varsavia, israeliani e palestinesi, gli sceicchi arabi, i dittatori sudamericani, i guerriglieri, i paesi non allineati. Le tensioni fra questi soggetti restavano in qualche modo confinate in territori limitati. Appena tentavano di sconfinare si alzava il sipario della liturgia costituita da immagini terrorizzanti quali missili nucleari pronti al lancio, sommergibili e cacciatorpedinieri in movimento, aerei con ordigni nucleari pronti al decollo. Sullo sfondo conflitti terribili ma locali dove le superpotenze si misuravano, a vicenda, dalle opposte fazioni: Vietnam, Afghanistan, Cuba, Medio Oriente. Nel frattempo, in Estremo Oriente crescevano le tigri finanziarie e tecnologiche pronte ad occupare, nel giro di qualche anno, il vuoto lasciato dal muro. L’Africa, come al solito, interessava, e interessa, solo come lucroso mercato delle armi necessarie alle guerre tribali o come contenitore di materie prime.

Sbriciolato il muro, l’equilibrio subì la medesima sorte e come prevedibile si stratificò in livelli. Per quelli determinati dal denaro, l’equilibrio si ristabilì in tempi ragionevoli dato l’esiguo numero dei soggetti coinvolti e perlopiù appartenenti alle oligarchie preesistenti la caduta del muro. Per quelli, più numerosi, determinati dalla domanda di indipendenza di popolazioni sino ad allora prevaricate anche nella sfera privata, l’equilibrio non si ristabilì. La circostanza offrì alla politica l’occasione per mostrare il suo volto peggiore. Avventurieri dei primi anni novanta cavalcarono con criminale superficialità i destrieri dell’autonomia e del rancore materializzando, a livello sociale, i fantasmi mai sopiti della paura del diverso oltre a presunti torti “storici” subiti da etnie fino ad allora pacificamente conviventi.

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L’acqua resti pubblica!

Il 19 novembre 2009, il governo ha ottenuto la fiducia sul controverso decreto Ronchi, che prevede la privatizzazione dell’erogazione dell’acqua. Questo provvedimento pone dei problemi fondamentali di tipo etico, sociale, giuridico (l’acqua è un diritto di tutti e deve essere fruibile  da tutti e a tutti garantita ad un prezzo equo). Ora secondo le associazioni dei consumatori, questa scelta, la privatizzazione appunto, farà crescere in media del 30-40% le bollette nel giro di tre anni, vanificando i principi inderogabili esposti sopra. Per richiamare l’attenzione su tutto ciò, il gruppo di minoranza, Cittadini di Gruaro, ha presentato in data 28-12-2009, al Consiglio comunale, la seguente mozione che è passata in Commissione regolamento, dove il testo verrà esaminato ed elaborato in collaborazione con la maggioranza.

Oggetto: RICONOSCIMENTO DELL’ACQUA COME BENE COMUNE E DEL SERVIZIO IDRICO INTEGRATO COME SERVIZIO PRIVO DI RILEVANZA ECONOMICA

IL CONSIGLIO COMUNALE

premesso che:

  • L’acqua rappresenta fonte di vita insostituibile per gli ecosistemi, dalla cui disponibilità dipende il futuro degli esseri viventi.
  • L’acqua costituisce un bene comune dell’umanità, un bene comune universale, un bene comune pubblico, quindi indisponibile, che appartiene a tutti.
  • Il diritto all’acqua è un diritto inalienabile: l’acqua non può essere proprietà di nessuno; l’accesso all’acqua deve essere garantito a tutti come un servizio pubblico.

SI IMPEGNA

1. a costituzionalizzare il diritto all’acqua, attraverso le seguenti azioni:

  • riconoscere anche nel proprio Statuto Comunale il Diritto Umano all’acqua;
  • confermare il principio della proprietà e gestione pubblica del servizio idrico integrato e che tutte le acque, superficiali e sotterranee, sono pubbliche e costituiscono una risorsa da utilizzare secondo criteri di solidarietà;
  • riconoscere anche nel  proprio Statuto Comunale che la gestione del servizio idrico integrato è un servizio pubblico privo di rilevanza economica, in quanto servizio pubblico essenziale per garantire l’accesso all’acqua per tutti e pari dignità a tutti i cittadini, e quindi la cui gestione va attuata attraverso gli artt. 31 e 114 del d.lgs. n. 267/2000;

2. a promuovere nel proprio territorio una Cultura di salvaguardia della risorsa idrica attraverso le seguenti azioni:

  • informazione della cittadinanza sui vari aspetti che riguardano l’acqua sul nostro territorio, sia ambientali che gestionali;
  • promozione dell’uso dell’acqua dell’acquedotto per usi idropotabili, a cominciare dagli uffici, dalle strutture e dalle mense scolastiche;
  • promozione di una campagna di informazione/sensibilizzazione sul risparmio idrico;
  • promozione, attraverso l’informazione, incentivi e la modulazione delle tariffe, della riduzione dei consumi in eccesso;

3. a sottoporre all’Assemblea dell’Ambito Territoriale Ottimale l’approvazione delle proposte e degli impegni sopra richiamati.

IL CONSIGLIO COMUNALE

VISTA la proposta di deliberazione posta all’ordine del giorno;
UDITA la relazione del capogruppo e la conseguente discussione;

DELIBERA

DI DICHIARARE l’acqua:

  • un bene comune, essenziale ed insostituibile per la vita di ogni essere vivente;
  • un diritto inviolabile, universale, inalienabile ed indivisibile dell’uomo, che si può annoverare fra quelli di riferimento previsti dall’art. 2 della Costituzione della Repubblica Italiana.

DI DICHIARARE il servizio idrico integrato un servizio pubblico locale privo di rilevanza economica, in quanto servizio pubblico essenziale per garantire l’accesso all’acqua per tutti e pari dignità umana a tutti i cittadini.

DI TRASMETTERE il presente provvedimento all’ATO del Lemene e a tutti i Sindaci del suo ambito.

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Canova, l’ideale classico tra scultura e pittura

Dal 25 gennaio al 21 giugno si svolge a Forlì nei musei di San Domenico una mostra dal titolo “Canova, l’ideale classico tra pittura e scultura”. Questa mostra è sicuramente importante perché è la più completa esposizione sino ad oggi dedicata al maestro veneto. Attraverso una serie di capolavori esemplari, l’esposizione ripercorre l’intera carriera del Canova, ponendo per la prima volta a confronto le sue opere (marmi, gessi, bassorilievi, bozzetti, dipinti e disegni), oltre che con i modelli antichi cui si è ispirato, anche con i dipinti di artisti a lui contemporanei con i quali si è confrontato. La scultura è una costante della vita di quest’artista; infatti egli nacque a Possagno (TV) il 1° novembre 1757 in una famiglia in cui da generazioni  si lavorava e si scolpiva la pietra.

Dopo la morte del padre e il secondo matrimonio della madre viene affidato al nonno che gli insegna il mestiere di scalpellino. Fin da giovanissimo, egli dimostrò una naturale inclinazione alla scultura: eseguiva piccole opere con l’argilla. Si racconta che, all’età di sei o sette anni, durante una cena di nobili veneziani, in una villa di Asolo, abbia eseguito un leone di burro con tale bravura che tutti gli invitati ne rimasero meravigliati; il padrone di casa, il Senatore Giovanni Falier, intuì la capacità artistica di Antonio Canova e lo volle avviare allo studio e alla formazione professionale. Grazie a Falier infatti ottiene a Venezia le prime commissioni che gli permettono poi di compiere nel 1779 il decisivo viaggio a Roma, città in cui si stabilì definitivamente nel 1793.

A Venezia e Roma cresce la passione di Canova per l’arte antica a cui si ispirerà nelle sue opere, in piena conformità con il pensiero del Neoclassicismo diffuso in quel periodo. Altra cosa importante da sottolineare è il luogo dove si svolge la mostra: non in molti sanno che Forlì è stato uno dei luoghi fondamentali per Canova e, in generale, per il neoclassico in pittura e scultura, e per la città l’artista creò tre capolavori.

Tra questi in mostra c’è una versione di Ebe, realizzata tra il 1816 e il 1817, per la contessa Veronica Guarini, che sarà messa a confronto con l’altra versione appartenuta all’imperatrice Giuseppina moglie di Napoleone, dove Ebe è rappresentata su una nuvola.

In questa scultura, come era solito fare, Canova adopera il marmo bianco che riesce a rendere armonioso, modellandolo con plasticità e grazia, finezza e leggerezza. La figura sembra quasi avere un proprio movimento, vivere nella sua  immobilità. Fondamentale è il tocco “dell’ultima mano”, dove l’artista apporta le decisive modifiche. Una caratteristica particolare del suo talento è la levigatura delle opere, sempre raffinata al massimo, grazie alla quale i suoi lavori hanno uno speciale effetto di lucentezza che ne accentua la naturale e splendida bellezza; inoltre aveva l’abitudine di spalmare sull’intera superficie epidermica una speciale patina. Il composto doveva essere formato da una mistura di pietra pomice, da una tintura giallognola o, fuliggine o “pura cera e acqua elaborata dallo speziale” o “acqua di rota” (cioè acqua sporca dall’arrotamento di strumenti metallici). Lo scopo era quello di anticipare gli effetti del tempo “il quale sovente dà alle opere quell’accordo e quell’armonia che l’arte può difficilmente imitare”. Osservando le opere di questo artista non possiamo che ripetere che incarna perfettamente l’ideale che Winckelmann riconosceva alla scultura greca: “la nobile semplicità e la serena grandezza”.

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