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Immigrazione a Gruaro

Il diagramma rappresenta la popolazione straniera (cittadini non Italiani) residente a Gruaro alla fine del 2005, in base al sesso e allo Stato di provenienza. La facile lettura non richiede commenti sui numeri, ma solo alcune considerazioni.

  • Se si fa riferimento al numero dei Gruaresi (2639) si scopre che la popolazione straniera (94) regolarmente residente nel nostro paese rappresenta il 3% su un numero totale di 2733 abitanti.
  • Anche la nostra piccola comunità è coinvolta dal fenomeno dell’immigrazione anche se non visibilmente percepita dai più.
  • Ciò può aver due spiegazioni: sostanzialmente l’inserimento degli stranieri è avvenuto senza sussulti o/e pregiudizi, o può essere indicativo di una marginalità voluta o subìta dagli immigrati stessi.

Relativamente ai Paesi di provenienza:

  • La Romania occupa il primo posto con 18 presenze, seguita in ordine da Serbia-Montenegro con 11 presenze e da Colombia con 10.
  • Le popolazioni africane, che singolarmente sono di numero contenuto, rappresentano complessivamente 37 unità.
  • Assenti gli Albanesi.

N.B. Sono considerati stranieri tutte le persone che non hanno la cittadinanza italiana e che quindi non godono dei diritti civili, cioè non votano in Italia anche se sono sposate con Italiani.

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A proposito di immigrazione…

Allo scopo di offrire uno spunto di riflessione su questo tema, segnaliamo una mostra, allestita a Roma, a gennaio,e già proposta a Reggio Emilia, e che molti auspicano diventi stabile, dal titolo  “Solo andata. Un viaggio diverso dagli altri”. Si tratta di una mostra-teatro  per capire l’immigrazione, organizzata da Cies (centro informazione e educazione allo sviluppo), con il contributo dell’ACNUR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), del Comune e della Provincia  di Roma e della Regione Lazio.

E’ uno spettacolo un po’ particolare, dove lo spettatore partecipa attivamente e fa la parte di un immigrato in viaggio verso l’Italia, mentre i veri immigrati fanno la parte di poliziotti, di funzionari delle Istituzioni e scafisti senza scrupoli (fonte: Fondazione Migrantes). “Lo scopo – osserva Walter Veltroni – è di arrivare dove le cronache quotidiane non arrivano, cioè a rendere l’idea di solitudine che c’è dietro la storia di tanti immigrati. E’ quello che è accaduto anche agli italiani che, fino a qualche decennio fa, emigravano in varie parti del mondo”.

E aggiunge poi Laura Boldrini, portavoce dell’ACNUR-UNHCR, “Solo andata vuol essere uno strumento di civiltà e di sensibilizzazione per far capire come i rifugiati e la maggior parte degli immigrati non abbiano scelta, ma siano costretti a lasciare i loro paesi e la loro vita.”

Ad inquadrare meglio il problema immigrazione, può essere utile anche ricordare che, quotidianamente, la Rai, in Pianeta dimenticato (www.pianetadimenticato.rai.it), focalizza la sua e nostra attenzione su un paese o su un problema  del Sud del mondo,da cui provengono buona parte degli immigrati. Interessante ed utile, per allargare il dibattito e riportarlo dentro i limiti della storia e della memoria, risulta anche il saggio di Gian Antonio Stella “L’orda – quando gli albanesi eravamo noi” – BUR, da cui è stata tratta la vignetta riportata qui a lato.

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Non solo calcio…

Seguo il ciclismo fin da piccolo, anche se non disdegnavo, se mi si presentava l’occasione, di tirare quattro calci al pallone, ma il ciclismo era sempre un’altra cosa che occupava tutti i miei pensieri e mi appassionava veramente, basti pensare che è dal 1975 che non perdo, come spettatore, un Campionato del mondo di ciclismo, un Tour, un Giro d’Italia, una Vuelta e così via.

Quando vedevo i corridori professionisti, o anche i dilettanti, anch’io avrei voluto inforcare una bicicletta da corsa, ma non me lo potevo permettere, mi limitavo a guardare e a sognare, ma quando ho avuto tra le mani il primo stipendio, guadagnato facendo la stagione, non ci ho pensato su due volte e mi sono comperato, una Iride, una bici da corsa, di cui conservo ancora alcuni pezzi. Ciò che mi attira in questo sport, che pratico a livello amatoriale (sono membro della Società ciclistica portogruarese), non è tanto la gara, il confronto con gli altri, ma è la sfida con me stesso, il fare ogni volta qualcosa in più, ma non per affermarmi, ma per conoscermi meglio. A me piacciono infatti tutti gli sport che io chiamo “di fondo”, che richiedono sforzo, costanza, carattere e applicazione, per cui, accanto al ciclismo, sento attrazione, una grande attrazione, per la maratona, per lo sci di fondo. Sarà per questo che sono stato contagiato, come i più del resto, dalla “malattia della salita”, per cui, ogni anno, in questo ambito, mi prefiggo delle mete nuove; quest’anno dovrebbe essere la volta del Grossglokner e del nuovo versante dello Zoncolan. Tutte queste prove le affronto, in genere, con un amico che condivide con me passione e valutazioni su questa disciplina sportiva.

Ho già fatto delle salite impegnative, come quelle dello Stelvio e del Gavia e qui, oltre al piacere dell’impresa, vista come superamento dei propri limiti, sono stato catturato dalla grandiosità  della cornice naturale, dal silenzio, dalla storia che mi sembrava di toccare in quei luoghi (spesso mi ritrovavo a pensare che di lì era passato Coppi, uno dei miei corridori preferiti). Sempre per rimanere fedele al mio motto “è la fatica che fa bello lo sport”, ho partecipato, per 7 anni di seguito, alla Maratona delle Dolomiti, che tocca 7 passi dolomitici, come il Pordoi, il Gardena, il Giau, conquistando, alla 6° volta, un buon piazzamento, ma quando mi sono accorto che più che il piacere di partecipare, prendeva il sopravvento, nei concorrenti, la gara e l’ansia del risultato, non vi ho più preso parte. Non solo non sono attratto dalla competizione, ma neanche dalla velocità, perchè non mi sembra sia questa la filosofia e l’essenza di questo sport.

Quando posso, cerco di seguire, dal vivo, come spettatore, una tappa del Giro d’Italia, una tappa di montagna naturalmente, perchè, oltre che vedere da vicino i miei beniamini, trovo particolarmente coinvolgente e bella l’atmosfera che si crea, il cameratismo che nasce tra gli spettatori, il senso di appartenenza che unisce i presenti. Anche quest’anno ho fatto questa esperienza ed ho seguito la tappa del passo S. Pellegrino: indimenticabile! Il mondo del ciclismo, spero di non apparire troppo ingenuo, mi sembra più semplice, più genuino, meno artefatto di quello di altri sport, tuttavia prendo le mie cautele, per cui quando mi chiedono qual è o quali sono i miei corridori preferiti, rispondo di slancio “Indurain, Basso, Cunego, Bettini, che io trovo solare”, salvo poi aggiungere “con  beneficio del dubbio…”. Tra quelli del passato, oltre a Coppi, già citato e che considero un grande, apprezzo molto Moser e Hinaut. Volendo trarre delle conclusioni, io trovo questo sport completo e coinvolgente e adatto ai più, capace di darti ed insegnarti molto, se si accettano i propri limiti e si tralasciano, lasciandoli ai professionisti, gli aspetti più esasperati di agonismo.

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La periartrite scapolo-omerale

La periartitrite scapolo-omerale è una malattia complessa, che si manifesta sotto diversi aspetti dal più subdolo ed insidioso dolore, alla crisi acuta che strappa urli al più feroce dei legionari.

Sarebbe più esatto chiamare questa patologia “sindrome spalla – mano”, primo perché questa definizione descrive bene la distribuzione del dolore, che può sia limitarsi alla sola spalla, sia irradiarsi fino alla punta delle dita; secondo, perchè nonostante la sua prima denominazione, non è per niente un’artrite bensì una infiammazione dei tessuti molli (e non delle ossa) che circondano la spalla, e che va dalla tendinite di vari muscoli alla capsula sinoviale, che avvolge l’articolazione della spalla. La periartrite, malattia subdola, inizia sempre con un dolore leggero, magari qualche fitta, che appare sopportabile, però, di notte lo stesso dolore permane e, anzi, diventa spesso una tortura. La persona fa sempre più fatica ad alzare il braccio. Si installa così un circolo vizioso: la persona  ha paura  di muovere il braccio e, aumentando l’immobilità, aumenta il dolore.

Purtroppo, con la somministrazione di un antinifiammatorio, il dolore può tornare  ad essere sopportabile e ciò fa sì che la persona si trascini per settimane, peggio per mesi, con un’alternanza logorante di sedazione e di episodi dolorosi. Entra in gioco il medico per la seconda volta per ordinare o “infliggere” la solita infiltrazione  di cortisone; gran sollievo per  uno, due, o tre giorni e dopo  avanti di nuovo con l’inferno, che può trasformarsi in “banchisa” con una spalla cosiddetta “congelata”, ossia paralizzata, che rende necessario lo sblocco sotto anestesia.

Cosa fare? Dunque prima di tutto bisogna avere subito la diagnosi corretta e capire da cosa è stata causata la malattia: nel 60/70 % dei casi la causa è psico – somatica (stress, paura, perdita di un caro, bocciatura agli esami, angoscia per il lavoro, abbandono amoroso, problemi con i figli . etc.). Il resto  è conseguenza di traumi, incidenti, lavori non abituali; dopo la diagnosi è opportuno eseguire una cura a base di movimenti precisi di ginnastica specifica, passiva, detta di Sohier, ad opera  del terapista.
Lo scopo di questo intervento è quello di rompere il circolo vizioso dell’immobilità. In parallelo, bisogna applicare l’elettroterapia e quella del freddo, perlomeno in fase acuta.

A questo proposito, è da sottolineare che la PSO è una malattia che si cura soprattutto in fase acuta, aspettare è assolutamente controindicato. Quanto alle infiltrazioni, tutti sanno che decalcificano le ossa, rendono fragili i tendini e mettendo pericolosamente a riposo le ghiandole surrenali. Esse infatti possono non funzionare più adeguatamente dopo ripetute cure di cortisonici. Una periartrite, anche dolorosissima, presa in tempo, può svanire in una sola seduta, essa si risolve nel 99% dei casi, con quanto descritto, ma a condizione di non aspettare  troppo a lungo e di non limitarsi ad ingerire carriolate di farmaci. Sono 25 anni che predico questo iter, evidentemente in un deserto dove emergono solo le case farmaceutiche.

Dr. Claude Andreini, Fisioterapista

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Non solo calcio…

Amo ogni tipo di sport, perché mi piace misurarmi con me stesso, mettermi alla prova, soddisfare, se è possibile, il mio desiderio d’avventura, o fare esperienze inconsuete. Spesso ho perseguito questi obiettivi con caparbietà, incurante delle mie condizioni fisiche e con un certo amore per il rischio. In questa mia sete di sperimentare tutto sono approdato alla canoa quasi per caso, spinto da un gruppo di amici fiorentini, con i quali avevo fatto il progetto (mai realizzato) di percorrere, in canoa naturalmente, il tratto Venezia – Trieste.

Con un amico però, su una canoa canadese, ho disceso il torrente But da Paluzza facendo… naufragio (e non è stato il primo); è stata poi la volta del Cellina dove ho dovuto fare i conti con difficoltà anche di 3° grado; ed ancora del Lago di Barcis, dove ho percorso un fantastico canyon con relativa cascata. Ho anche partecipato a 3 campionati italiani di handycayak, ottenendo qualche discreto risultato. Dopo questa prima fase “eroica” mi sono accorto che non era tanto la competizione che mi interessava, quanto le possibilità che mi offriva la canoa come mezzo di trasporto versatile e maneggevole: potevo pagaiare con altri, penetrare in ambienti diversissimi tra di loro, spaziare dal torrente di montagna con i suoi salti, al fiume placido di pianura, alle acque immobili delle valli e delle lagune (consiglio a questo proposito il percorso Portogruaro – Caorle), sempre in silenzio, attorniato dal solo rumore dell’acqua, pronto a cogliere gli stimoli che vengono dall’ambiente circostante, con possibilità di guardare e di pensare.

Ho trovato una risposta adeguata a queste mie nuove istanze in una manifestazione “Il Sile per tutti”, nata ormai 17 anni fa, aperta a tutti, abili e disabili; ed è stato proprio il fatto, che l’iniziativa facesse leva  su questo concetto di uguaglianza e di pari opportunità offerte a tutti, che mi ha affascinato e mi attrae ancora in modo particolare, tanto che ho coinvolto, in questa mia passione, familiari ed amici, arrivando al punto di riuscire a trascinare con me, negli anni, fino a 200 persone. Il partecipare a una manifestazione come quella citata, non competitiva e che ha il sapore di una festa sull’acqua, può essere un modo buono per avvicinarsi a questo sport, per conoscerlo da vicino, poi uno può decidere di coltivare la disciplina anche a livello agonistico o come meglio crede. A questo scopo segnalo che a Portogruaro esiste un “Canoa Club” a cui è possibile fare riferimento.

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Disabili – Una testimonianza

Parlare di persone “diversamente abili”… bella sfida… che posso dire?
Forse potrei partire dicendo che lo siamo tutti, in quanto ciascuno di noi ha delle abilità differenti (io per esempio sono bravo a fare la pizza, a quanto dicono…), delle qualità, delle doti, delle caratteristiche che lo rendono unico e insostituibile, assolutamente originale.
Tuttavia non mi sento così capace di “filosofeggiare” su questi concetti…

E allora mi conviene partire dalla mia esperienza personale a contatto con queste persone e cercare di raccontare quello che ho visto e sentito.
Vediamo un po’ …. Potrei chiedere a chi legge di fare così: chiudete gli occhi e pensate a cosa vi viene in mente se vi dico la parola “disabile” o “handicappato” o “ritardato” o “matto” (che fra l’altro sono tutte paroline scherzose e per nulla pesanti o offensive…, ma che appartengono al linguaggio comune…). Fatto? Bene.

È’ probabile che vi siano venute in mente immagini di persone sedute in carrozzina che si spingono con le mani… o che sbavano e vi guardano fisse… o che sono tutte deformi, con le mani, le braccia, le gambe, i piedi storti e contorti come rami di alberi… o persone che camminano avanti ed indietro in una stanza affermando ad alta voce di essere Napoleone… o persone che non parlano… o non vedono… o non sentono… insomma persone che quando le incontri per strada, spesso si fa finta di non vederle e ti fanno cambiare direzione mentre cammini… oppure li si fissa con curiosità morbosa.

Ebbene… a questo punto abbiamo solo due scelte: o ammettiamo che questo variegato campionario di umanità esista, con tutte le conseguenze e le responsabilità che questo comporta, oppure le mettiamo alla porta e ne ignoriamo l’esistenza o cerchiamo di sopprimerle rapidamente…
Ma in ogni caso il problema è nostro, perché stare a contatto con queste persone ci fa toccare con mano le nostre fragilità e debolezze e le nostre difficoltà nel riconoscere l’altro come diverso da me, ma allo stesso tempo uguale a me…

Francamente, dopo quasi dieci anni di volontariato, mi sento di dire, a coloro che fanno la seconda scelta, che non sanno cosa si perdono…
Sapete, la cosa più sorprendente e forse anche banale da dire è che da questo colorato pezzo di umanità io ho ricevuto molti più “doni” di quanti non ne abbia dati a loro. E sono in grado di ricordare tutte le persone, le situazioni, le esperienze nelle quali ho potuto ricevere tutto ciò.

Vi faccio degli esempi di questi “regali”: ho imparato ad essere Paziente. Delicato. Rispettoso. Attento. Sorridente. Allegro. Ad accarezzare e coccolare. Ad ascoltare. A stupirmi delle piccole cose. A giocare. Ad essere Spontaneo… Insomma un sacco di cose… che mi hanno sicuramente reso migliore di quello che ero…
Ho sperimentato – con mia grande meraviglia e stupore –  cosa può voler dire essere amici di qualcuno, sentire che l’altro ti accoglie per quello che sei, che non pretende niente da te se non quello che tu gli vuoi dare, che ti accoglie sempre e che non ti giudica, che esprime le sue emozioni in modo spontaneo e invita te a fare altrettanto…

Quindi quando mi capita di andare per strada spingendo una persona in carrozzina e di incontrare la classica signora di mezz’età che ci ferma e dice “che bravo che te sì…”, dentro di me penso sempre che questo significhi “che bravo che sei tu – seduto su quella carrozzina –  che permetti a questo essere umano che ti spinge di avere l’onore di relazionarsi con una persona speciale come te”.

Se a chi legge, potranno sembrare retoriche o “buoniste” queste mie parole… non importa… il mio intento non è di far cambiare idea o convincere nessuno… ma esprimere ciò che per me è importante e prezioso…
Poi se – per caso – qualcuno leggendo fosse interessato a saperne di più o fosse incuriosito… andate a vedere questo sito internet: www.arca93.it ; è il sito dell’associazione di volontariato di cui faccio parte…

Ecco, ho fatto pure un po’ di pubblicità…
Ringrazio l’Associazione “La Ruota” per lo spazio concessomi…

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Dell’uso ed abuso… della radiografia

Nata dalle ricerche di Marie Curie sulla radioattività, la radiografia è diventata un mezzo meraviglioso di indagine medica, in quanto permette di vedere  le strutture ossee ma anche le parti molli, polmoni, o cave, intestini, se riempite prima di liquido opaco.

Essa però non è innocua e non sempre necessaria. Rispetto alla prima caratteristica, non sempre ci si è posti correttamente il problema. Pensate che  negli anni cinquanta, nonostante la bomba atomica, non si era ancora convinti della pericolosità dei raggi ionizzanti: in effetti, oltralpe, nei negozi di scarpe, c’erano delle macchine dotate di una apertura dove si infilava il piede calzato di nuovo e da una finestra posta in alto si potevano osservare le ossa e la loro posizione  nella scarpa! Una pazzia sia per il cliente che per il personale del negozio…

La necessità, poi, di questo mezzo diagnostico applicato all’ortopedia è l’oggetto di questo articolo. Quando fare la radiografia, prima  o dopo la diagnosi? Ossia prima o dopo che si sappia di quale problema si soffre eventualmente? Per me la risposta è chiara, ma l’esperienza quotidiana evidenzia che non è una opinione sempre condivisa. Per capire meglio faccio un esempio banale: quando un’automobilista si reca in officina perché la macchina non funziona bene, cosa fa il meccanico? Apre il motore? Toglie gli ammortizzatori? Smonta i freni, svuota  i serbatoi? Per prima cosa chiede al conducente cosa succede e dopo si mette ad ascoltare o a provare il veicolo. Solo quando avrà un’idea precisa del danno interverrà sulla parte non funzionante. In medicina, è esattamente la stessa cosa: l’operatore ascolta cosa dice il paziente (o dovrebbe), dopo fa la visita (o dovrebbe) e infine fa una diagnosi.
Solo in caso di dubbio o per confermarla chiede una radiografia mirata.

La radiografia deve essere fatta solo ed esclusivamente dopo l’esame clinico che da, o dovrebbe dare, con parecchia precisione una idea del problema. Perciò se la diagnosi è sicura, perchè fare una lastra? Se la sciatica è accertata, perchè irradiare? Invece, se non c’è una diagnosi, dove fare una lastra? Su tutto il corpo? E poi dove e cosa  osservare?! Inoltre una radiografia che preceda l’esame clinico non è la garanzia di una diagnosi  corretta. In effetti quante volte sento dire che c’è una periartrite perché è visibile una calcificazione nella spalla!  Scommettiamo che  se facciamo una radiografia a 1000 persone a caso, ne troveremo decine  e decine con delle calcificazioni e che non presentano nessun dolore! Invece, quando si fanno lastre a periartriti  correttamente diagnosticate, molto spesso non si riscontrano calcificazioni!

Allora  il paziente se l’inventa il dolore? Certo che no, perché non sempre c’è correlazione fra deposito e  dolore visto che 60% delle periartiti sono psicosomatiche o senza alcuna calcificazione.  Ovviamente da non curare con euforizzanti od altri antidepressivi.
Tuttavia, personalmente ho la triste sensazione che meno si sa fare l’esame clinico e più si chiedono radiografie, con buona salute degli irradiati.

Dr. Claude Andreini – Fisioterapista

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Conosci te stesso

Nozioni elementari di patologia e cure eventuali. A cura del Dr. Claude Andreini, Fisioterapista

Prima di proporre l’approccio ad una patologia, vorrei ripulire il campo da certe espressioni ambigue:

1. il “dolore: Il dolore è un sintomo. Non è il nome di una malattia. Un trauma, una malattia, provoca dolore, perciò è sempre una conseguenza e non un punto di partenza. Infatti, quello che la gente chiama “dolore” è, nel nostro caso, un’infiammazione articolare di tipo o artritico o artrosico. Nonostante le due parole si assomiglino, esse rappresentano patologie distanti fra loro come lo sono una Ferrari ed un tagliaerba. L’artrite, o reumatismo,  è una infiammazione articolare  su base infettiva, anche se non sempre si riscontra il microbo. La malattia è grave.
L’artrosi, invece, non è una malattia, è semplicemente il risultato di un consumo fisiologico delle articolazioni.

2. il “nervo”: Spesso sento: “go un nervo fora”. Impossibile!
In effetti il nervo non è altro che un cavo elettrico che, come questo, è formato da fili contenuti in una guaina. Come il cavo, serve a fare passare corrente elettrica, dal cervello o dal midollo vertebrale ai muscoli e agli organi del corpo e viceversa. Perciò, un nervo non “va fora”… perché non si muove! Se qualcosa “va fora”, più spesso è la testa dell’Uomo.
Ciò che la gente chiama “nervo” è semplicemente il tendine di un muscolo, o meglio il legamento che tiene stretto un osso con un altro. Essi possono essere “stressati” da variazioni di posizioni abnormi delle ossa, dovute a incidenti più o meno gravi, come fratture, distorsioni o lussazioni, tutte patologie che vedremo in seguito.

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2. il “nervo”: Spesso sento: “go un nervo fora”. Impossibile!
In effetti il nervo non è altro che un cavo elettrico che, come questo, è formato da fili contenuti in una guaina. Come il cavo, serve a fare passare corrente elettrica, dal cervello o dal midollo vertebrale ai muscoli e agli organi del corpo e viceversa. Perciò, un nervo non “va fora”… perché non si muove! Se qualcosa “va fora”, più spesso è la testa dell’Uomo.
Ciò che la gente chiama “nervo” è semplicemente il tendine di un muscolo, o meglio il legamento che tiene stretto un osso con un altro. Essi possono essere “stressati” da variazioni di posizioni abnormi delle ossa, dovute a incidenti più o meno gravi, come fratture, distorsioni o lussazioni, tutte patologie che vedremo in seguito.2. il “nervo”: Spesso sento: “go un nervo fora”. Impossibile!
In effetti il nervo non è altro che un cavo elettrico che, come questo, è formato da fili contenuti in una guaina. Come il cavo, serve a fare passare corrente elettrica, dal cervello o dal midollo vertebrale ai muscoli e agli organi del corpo e viceversa. Perciò, un nervo non “va fora”… perché non si muove! Se qualcosa “va fora”, più spesso è la testa dell’Uomo.
Ciò che la gente chiama “nervo” è semplicemente il tendine di un muscolo, o meglio il legamento che tiene stretto un osso con un altro. Essi possono essere “stressati” da variazioni di posizioni abnormi delle ossa, dovute a incidenti più o meno gravi, come fratture, distorsioni o lussazioni, tutte patologie che vedremo in seguito.