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“Antichrist” di Lars Von Trìer

Impossibile prescindere dal regista per parlare di questo film.
Lars Von Trier: cosa dire su quest’uomo che non sia già stato detto? Provocatore, genio, venduto al mercato, fallito, arrogante, pervertito…
Personaggio quantomai controverso, fuori dagli schemi del sistema filmico, ma contemporaneamente così addentro al sistema filmico da capire perfettamente quali leve toccare per promuovere i suoi lavori. Le sue poliedricità ed irriverenza, la sua ossessione per le regole, la sue fobie, ne fanno un artista che spicca per meriti (ha contribuito a risollevare l’asfittico cinema danese degli anni ’90 e posto le basi per un certo tipo di cinema europeo, vedi i fratelli Dardenne), ma che nel contempo lo rende insopportabilmente autoreferenziale ed arrogante.
Von Trier è un dandy moderno, nel senso più ampio del termine, ma anche un’artista fondamentale e non trascurabile del panorama cinematografico europeo, che ad ogni opera innova e rinnova il proprio stile, non lesinando di chiedere uno sforzo allo spettatore che si avvicini alle sue produzioni.
Tutto ciò è quantomai valido per l’ultimo suo film: “Antichrist”, presentato alla 62esima edizione del Festival di  Cannes (2009) e che pur suscitando ilarità in parte del pubblico, rappresenta fuor di dubbio una summa del cinema e della psicologia del “personaggio” Lars Von Trier, indubbiamente mai così a nudo.
Non a caso il film è stato presentato anche come il racconto catartico del periodo di depressione del regista.
Ed infatti quello che viene messo in scena in “Antichrist” è un vero e proprio percorso psicanalitico, sia per la presenza del personaggio “lui” (psicoanalista che tenta di curare la moglie), sia perché carico di figure dell’onirico e dell’inconscio, di simbologie biblico-cristiane, di superstizione medievale (forse l’elemento più debole, in verità), e finanche per la precisa divisione della pellicola in momenti distinti e conseguenti: prologo, quattro capitoli (dolore, pena, disperazione, i tre mendicanti), epilogo.
Partendo dal canovaccio di una coppia che perde un neonato a causa della propria sventatezza e dal dolore provocato da questa perdita e dal tentativo di superarlo affrontandolo quanto più possibile in maniera razionale, Von Trier affronta i temi tipici del suo cinema, ma lo fa in una maniera più “candida” del solito: il dolore, la violenza, la giustapposizione tra i generi maschile e femminile, l’ipocrisia della coppia, il viaggio come ricerca inevasa di pace, sono qui rappresentati come una sorta di “fenomenologia dello spirito” inversa, tramite la quale perdono via via di senso concetti come “umanità” e “speranza”.
Infatti i protagonisti, diventati simboli di questa diarchia tra l’uomo e la donna, ma anche tra l’utopia che la razionalità possa vincere sull’animalità dell’essere umano, perdono via via l’uno nell’altra la compiutezza della propria esistenza, svelando finalmente l’ipocrisia che mina la loro vera natura.
Se quindi il tema principale dovrebbe essere quello dell’elaborazione di un lutto, Von Trier in realtà mette in scena l’essere umano, ed in particolare le seguenti tematiche: il rapporto controverso con e per le donne, l’ossessione disturbante del sesso, la trivialità e violenza intrinseche nella psicologia umana, l’angoscia per l’inevitabile divenire, la spinta alla mutilazione genitale ed all’autolesionismo come riscatto dalla debolezza delle carni.
In questo senso il film è disperatamente violento, un colpo allo stomaco, ma non per la presenza delle pur abbondanti scene di violenza, orrore o sesso (nelle quali peraltro non viene risparmiato nulla), quanto per il progressivo ed inarrestabile disvelamento della natura umana che viene messo in atto: a precipitare nella follia dei “tre mendicanti” (dolore, pena, disperazione, per l’appunto) non sono solo i protagonisti, ma siamo noi in quanto “umanità”.
In tale ambito vengono altresì inseriti: il rapporto conflittuale casa/natura, l’eterno contrasto tra pulsione, desiderio ed i costrutti razionali dell’individuo, il rifiuto del proprio corpo e del corpo di donna in particolare, la visione della maternità come dannazione, insomma in questo film ci sono tanti e tali spunti di riflessione che l’elenco potrebbe essere lunghissimo e l’analisi sconsideratamente prolissa.
Infine almeno un cenno è necessario fare al contrasto tra la sublime fotografia curata da Anthony Dod Mantle e le scene più crude, all’uso del rallenty a sottolineare i momenti più liricamente elevati, allo splendido bianco nero che caratterizza il prologo e l’epilogo, all’azzecatissimo uso dell’aria “Lascia ch’io pianga” dal Rinaldo di Georg Friedrich Händel; sta di fatto che Antichrist è il film tecnicamente meglio realizzato e diretto dal regista danese. Il punto però è che il livello di impegno richiesto per la visione è tale che è facile indurre lo spettatore al rifiuto dell’opera. La normale “sospensione dell’incredulità” non è infatti qui necessaria, perché da subito il “patto artista-pubblico” è: o mi segui per tutto il tempo, fino in fondo, o prendi tutto come un’immane, grottesca scemenza ed allora è meglio che non prosegui oltre. Una sorta di “patto di fede”, anche se ciò che ne segue è veramente l’anticristo: siamo soli, non c’è salvezza, non c’è speranza.
Ancora una volta Von Trier spiazza tutti e costruisce un film profondo, impermeabile alle critiche. Film dell’anno 2009.

P.S. Magnifici (e coraggiosi) gli attori: il premio a Cannes per la migliore intepretazione femminile a Charlotte Gainsbourg è ultra-meritato!

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