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Joan Mirò

Mi sembra giusto e doveroso dare rilievo ad una mostra che si è svolta, dal 7 dicembre 2007 al 2 marzo 2008, a Pordenone presso le sale espositive del palazzo della provincia. Questa mostra è la continuazione delle precedenti esposizioni dedicate all’incisione, legate alla Triennale europea dell’incisione. Quest’anno la mostra era dedicate a uno dei maggiori artisti del ‘900: Joan Mirò.

Osservando le opere della mostra, esclusivamente grafiche, si percepisce subito la vicinanza di questo artista al movimento surrealista. Le opere di Mirò infatti sono un insieme di segni, di forme e di colori (che non a caso sono prevalentemente il rosso il giallo e il blu, cioè i tre colori primari) apparentemente senza senso, ma che poi improvvisamente diventano emozioni e sensazioni sempre nuove e sempre diverse, lasciando spazio all’interpretazione soggettiva. Quando si guarda un’opera di questo artista si apre un mondo fantastico, fatto di sogni, fatto di quello che viene chiamato inconscio, in piena linea con il surrealismo.

Nel 1924 esce infatti il manifesto surrealista di André Breton, che definisce il Surrealismo un “automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente che in ogni altro modo, il funzionamento reale del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale”. L’automatismo psichico significa quindi liberare la mente dai freni, come la razionalità, la moralità, l’educazione, così che il pensiero sia libero di vagare secondo libere associazioni di immagini e di idee. In tal modo si riesce a portare in superficie quell’inconscio che altrimenti appare solo nel sogno. Aspetti fondamentali del movimento sono la rivalutazione della componente irrazionale della creatività umana e la liberazione dell’inconscio: un rifiuto della logica a favore di una totale libertà di espressione.

Lo stesso Mirò dice: “La scoperta del surrealismo, ha coinciso per me con una crisi della mia pittura, determinando la svolta decisiva che mi ha fatto abbandoare il realismo per l’immaginario”.

Mirò però non è mai astratto, le sue immagini alludono a qualcosa, infatti si pone in bilico tra conscio e inconscio, perché ogni forma, ogni segno si organizzano nello spazio, volutamente infinito, in un’immagine che non sembra avere nulla a che fare con la realtà, ma che certamente parte proprio da essa, riproducendo cose ed oggetti reali, anche se rimescolati in maniera del tutto originale ed “assurda”. Nelle opere di questo artista non vi è gerarchia, tutto ha la stessa importanza, tutto sembra stabile, ma in realtà non è così, ogni opera se osservata attentamente diventa esplosione di segni, colori, forme e figure.

Alberto Giacometti dà, a mio parere, una definizione perfetta di Mirò quando dice: “Miró era la grande libertà. Qualcosa di più aereo, di più libero, di più leggero di tutto quanto avessi visto. In un certo senso era assolutamente perfetto. Miró non poteva fare un punto senza farlo cadere nel punto giusto. Lui era talmente pittore che gli bastava lasciar cadere tre macchie di colore sulla tela perché essa esistesse e costituisse un quadro.”.