0

Tempo di sagra

Che momento stupendo la sagra, specialmente se hai 9 anni. Siamo nel 1957, io ero, come già detto, una bambina e ricordo che la sagra a Bagnara incominciava con la processione del patrono, San Liberale e cadeva sempre la prima domenica di luglio ed era chiamata: La sagra dei giambars.

Quanta gente c’era a seguire la processione in quei pomeriggi caldi, d’estate. C’era il paese intero e tutti, tra una preghiera ed una litania, ammiravano le ragazze; anch’io non riuscivo a distogliere gli occhi da quelle fanciulle che conoscevo bene, e che in quel giorno di festa si trasformavano e sfoggiavano degli abiti stupendi ai miei occhi, alla moda, che in realtà non avevano niente di straordinario: corpetto aderente, colletto bianco, gonna larga, a ruota intera, cintura in tinta stretta in vita. Erano confezionati con la stoffa in voga a quel tempo, il nailon, ed erano perlopiù a fiori. La stoffa era leggerissima e trasparente e per mimetizzare quella trasparenza, sotto si metteva una sottogonna, bianca, con tanti volants di sangallo, inamidata che rimaneva rigida  che dava volume al vestito che, così sostenuto, si allargava a corolla con un effetto di grande grazia ed armonia. Le scarpe poi, anzi i sandali, erano di solito bianchi, con i tacchi a spillo, alti almeno 10, 12 cm. L’abbigliamento era completato da una borsetta anch’essa bianca e da guanti in pizzo, bianchi. Non mancava un golfino fatto a ferri, per coprire le spalle, visto che in chiesa non si entrava con le braccia scoperte.
Alle volte un nastro adornava la cascata di capelli, lunghi, ricci, castani, biondi, neri, naturali, non tinti. Erano così le ragazze di quel tempo, belle, femminili ed eleganti.

Finita la processione arrivava Ceci, mitico, il gelataio; arrivava da Sesto al Reghena con quella strana bicicletta, corredata di carrettino. Lui, con dieci lire o un uovo, ti dava un cono di gelato, buonissimo, fresco, che profumava di vaniglia e cioccolato e ci aggiungeva anche la palettina in legno che noi ragazzi conservavamo gelosamente, per giocare, per il resto dell’estate. Finita la processione ed il rito del gelato, la piazza si svuotava, perché tutti andavano a cena, ma ancor prima che il sole tramontasse, essa si riempiva di nuovo perché incominciava il ballo su “vasta piattaforma” o meglio ancora, “piantaforma” come dicevamo noi.

Naturalmente eravamo noi bambini a collaudarla anche se regolarmente venivamo mandati via con un: “Nu si puol! Deit via. No vedeo che vin pena butat par tiara la cera?”. Noi ubbidivamo a malincuore, ma avevamo avuto la nostra piccola soddisfazione di essere stati i primi. A volte capitava che io chiudessi gli occhi e fingessi di danzare come le ballerine. In quel momento mi giungevano al naso, mescolati insieme, i più svariati odori: quello di rose, di cera, di sapone, di brillantina (perché non c’era uomo o ragazzo che non se la mettesse a quei tempi sui capelli che poi ravviava con un pettinino estratto dal taschino) e anche di stalla, visto che era estate e che le corti di letame erano in fermento e che ogni casa aveva la sua.
A seconda di come tirasse il vento le zaffate di letame variavano di intensità… ma era tutto assolutamente normale e naturale.