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Elogio della normalità

Scorrendo gli articoli del giornale, mi sono imbattuta per ben due volte nell’aggettivo “epocale”, anche se usato con accezioni e sfumature diverse: una volta in senso letterale, come sinonimo di “periodico”, un’altra in quello di “eccezionale” anche se con un’intensa connotazione ironica, ma tant’è il vocabolo, nella sua pregnanza e nella sua frequenza mi ha spinto ad alcune riflessioni.

Mi sono resa conto innanzitutto che il termine è molto di moda ed è usato frequentemente nel linguaggio giornalistico e nel politichese per indicare avvenimenti, provvedimenti e riforme presentate come capaci di segnare un’epoca appunto, naturalmente migliorandola.
Ed è proprio questo esclusivo significato positivo, attribuito al succitato aggettivo che suscita un moto di diffidenza e sollecita la mia analisi; continuando quindi nel mio esame della parola da un punto di vista lessicale e connotativo, osservo, ripetendomi che esso può essere correttamente sostituito da “eccezionale”, “straordinario” ed allora la sottolineatura enfatica, celebrativa appare ancora più evidente.

Ad “epocale” poi io associo istintivamente il sostantivo “evento” che mi porta, dritto dritto, al mondo dello spettacolo, di cui è diventato, nel linguaggio comune, sinonimo, ed allora il cerchio è chiuso.
Considerando che il linguaggio è lo specchio di una determinata società in un determinato momento storico, non riesco a sottrarmi al pensiero di una spettacolarizzazione della vita pubblica, sociale e politica con tutte le implicazioni negative o discutibili che questo comporta ed allora ho l’impressione di trovarmi immersa in una comunità separata, in cui ci sono da una parte cittadini-spettatori e dall’altra politici-attori.

A questo punto penso che mi piacerebbe tanto che l’aggettivo in questione venisse usato con meno enfasi compiacente, o venisse sottaciuto, o meglio sostituito, anche implicitamente, da “normale”, termine meno ridondante certo, dal significato forse non del tutto univoco, ma più aperto a valutazioni ed interpretazioni e che fa pensare ad una società in cui leggi e riforme rispondono a bisogni reali dei cittadini che non sentono la necessità di essere stupiti con “effetti speciali”.

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Nichilismo e speranza: riflessione sui giovani

Con il termine nichilismo, dal latino nihil cioè nulla, viene inteso solitamente l’atteggiamento, o la dottrina, che nega in modo definitivo l’esistenza di qualsiasi valore in sé e l’esistenza di una qualsiasi realtà oggettiva.
Si tratta di un atteggiamento che ha attraversato la storia dell’umanità, dai Greci (con Gorgia) fino ai giorni nostri (Heidegger, E. Severino) e che ha assunto nei secoli forme diverse e contestualizzate allo spirito di ogni epoca.
Nella seconda metà dell’Ottocento, grazie al nichilismo russo che si espresse prevalentemente in forma narrativa anziché concettuale, il termine divenne di uso comune. A dargli il nome fu lo scrittore I. S. Turgenev, l’autore di “Padri e figli” (1862).
Da qui il nichilismo esce dall’ambito propriamente filosofico e incomincia a contaminare il pensiero sociale e politico francese e tedesco, ad animare l’anarchismo e il populismo del pensiero russo, proclama, con Nietzsche, la morte di Dio e apre alla cultura della crisi connotata da relativismo, scetticismo e disincanto.
Il nichilismo, l’ospite inquietante che è entrato nelle nostre case e che fatichiamo a riconoscere, si aggira tra i giovani, “penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca le loro anime, intristisce le passioni rendendole esangui” (U. Galimberti).

Genericamente parliamo, leggiamo e ascoltiamo di disagio giovanile: quasi un luogo comune percepito nella nostra società senile come un rimbrotto paternalistico e comunque limitato alla sfera esistenziale. Ma il disagio non è esistenziale, bensì culturale: Dio è morto e con lui la visione ottimistica della storia che vedeva il passato come male, il presente come redenzione e il futuro come salvezza.
La cultura occidentale, abbandonata la visione pessimistica degli antichi greci e abbracciata la tradizione giudaico – cristiana, ha guardato al futuro sorretta dalla convinzione che la storia dell’umanità è una storia di progresso e quindi di salvezza. Ma anche l’omologa moderna della triade male – redenzione – salvezza e cioè scienza – utopia – rivoluzione ha mancato la promessa. Disuguaglianze sociali sempre più evidenti, disastri economici, inquinamenti di ogni tipo, comparsa di nuove malattie, intolleranze e fanatismi, pratica abituale della guerra testimoniano il venir meno della promessa.

La positività della tradizione giudaico – cristiana è stata sostituita dalla negatività di un tempo inconsapevole, dominato da una casualità senza direzione e orientamento, medioevo tecnologico popolato da imbonitori televisivi, alchimisti finanziari che promettono elisir di lungo profitto, predicatori che arringano le anonime moltitudini che non hanno saputo riempire il vuoto lasciato dalla scomparsa delle classi sociali e ormai occupato da oligarchie corporative.
La mancanza di senso, di fine e di scopo ha ridotto l’orizzonte a un deserto pietrificato dove dominano i miraggi. Così la nostra società contemporanea è pervasa dalla tristezza diffusa e percorsa dal sentimento permanente della precarietà e dell’insicurezza.
Il futuro come promessa è scomparso e questo determina l’arresto del desiderio al presente. Con il rischio che, negli adolescenti, non si verifichi più il naturale passaggio dall’amore di sé all’investimento sugli altri e sul mondo con conseguente affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali.
Genitori e insegnanti sono disorientati perché la mancanza del futuro come promessa li priva dell’autorità di indicare la strada.

Questa circostanza induce l’instaurarsi di un rapporto contrattuale, quindi egualitario, fra genitori e figli, insegnanti e allievi. Ma questa relazione è lungi dall’essere paritaria perché priva l’adolescente dei riferimenti necessari a contenere, con equilibrio, le proprie pulsioni e l’ansia che ne deriva.

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Pensiamoci su!

Ho letto, su un settimanale, un interessante articolo di Maria Grazia Meda, che affronta il discorso della responsabilità personale, così come è avvertito oggi, in particolare in Italia e in America, ed il quadro che ne esce è preoccupante e desolante insieme, confermato da quanto noi viviamo nella quotidianità.

“Fumo? Colpa dell’industria del tabacco. Ingrasso? Colpa del fast food. Non studio? Colpa del prof. Psicologi e sociologi lanciano l’allarme. Si sta affermando una cultura dove nessuno si assume più responsabilità”.

Questa la tesi fatta propria dalla giornalista, che cita, sull’argomento, tutta una serie di studi di autorevoli studiosi, tra i quali François Ewald, docente al Conservatoire national des arts et metiers, che sottolinea come nella società globalizzata, con le sue interdipendenze di merci, uomini, informazioni che circolano liberamente, “le decisioni e le responsabilità siano atomizzate e sia lasciato all’individuo un margine d’azione e quindi di responsabilità ridotte…”.

Nasce da qui una sensazione di impotenza, di inadeguatezza a fronteggiare una realtà così complessa che finisce per spingerci a limitare al massimo il rischio o addirittura ad eliminarlo, il che è, continua la giornalista, citando Miguel Benasayag, autore di “Utopia e libertà”, pericolosamente illusorio, perché una vita senza rischi è impossibile. E immaginare che lo sia, pur nella sua impossibilità, ha conseguenze nefaste: aumentano la violenza, l’intolleranza, la depressione e la paura.” È la fotografia del momento che stiamo vivendo!

La Meda indica poi questo rifiuto della corresponsabilità come una “nuova malattia sociale che si manifesta dall’infanzia, quando ogni persona deve essere protetta da tutto” con il risultato che questi ragazzi, non abituati a prendersi le loro responsabilità , diventeranno, da grandi, “fragili e insicuri”.

Che fare? Non abbiamo certo noi la ricetta sicura, ma si potrebbe incominciare con il ripensare, prima di tutto, ai nostri comportamenti di adulti: non limitarci ad essere meri esecutori di ordini, (button pushing, come si dice nel linguaggio tecnologico), responsabili solo nei confronti di un superiore, ma prendere delle decisioni, assumendosene rischi e responsabilità, e nell’ambito della sfera personale, educativa, sociale; insistere nuovamente sul binomio indissolubile diritti-doveri, o meglio, come dice Michele Serra, “desideri e il loro limite”; accettare la sfida di questa scelta e attendere, pazientemente ma non fatalisticamente, i risultati.

da “Gioventù a rischio zero” di Maria Grazia Meda, L’Espresso n°49 del 13/12/2007

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