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“La vita di Adele – Capitoli 1 & 2” di Abdellatif Kechiche

Lo scrivo da subito: “La vita di Adele – Capitoli 1 & 2” di Abdellatif Kechiche (liberamente ispirato al romanzo a fumetti “Il blu è un colore caldo” di Julie Maroh) è un film distantissimo dai miei gusti, interessi o idee, ma è un grande film, ed una meritatissima Palma d’Oro al Festival del Cinema di Cannes 2013.

E non lo è tanto per l’ambientazione o la critica alle classi intellettuali e privilegiate di Lille, quanto per l’incredibile capacità che il regista dimostra ancora una volta (vedi L’esquive o La graine et le mulet) nel dirigere i propri interpreti, nello specifico le splendide Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos, che qui gli si concedono totalmente e letteralmente. Questo rapporto di empatia “discendente” (nel senso più etimologico del termine) tra l’autore e le protagoniste, in cui la fortissima personalità del primo va dispiegandosi e confondendosi nelle attrici, produce forse la miglior applicazione del “metodo Stanislavskij” che si sia vista al cinema negli ultimi anni. Vista la profondità e qualità delle loro interpretazioni, mi domando quanto abbiano impiegato le due giovani donne ad “uscire” dai rispettivi personaggi e dalla propria relazione, ma una cosa è certa: se l’egocentrico Kechiche è riuscito a spingerle ad un tale livello di complicità e fiducia, deve essere un fine conoscitore delle dinamiche psicologiche femminili (oppure un sadico despota come accusa la Seydoux…). Proprio in questo risiedono i recenti e tristi dissapori che hanno accompagnato l’uscita internazionale del film.

Venendo all’opera, la storia di Adele cattura non tanto per quel che le accade (banalmente: un amore), quanto per quel che cerca e le viene offerto. E cosa cerca Adele? Cosa le manca? E soprattutto, cosa trova?

Kechiche è molto attento nel definirla: Adele è una liceale immatura ed imperfetta, affine alle proprie coetanee, piena delle contraddizioni, pulsioni e pregiudizi dell’età e del genere; ha un fantastico rapporto con il cibo (quasi feticistiche le continue riprese della sua bocca) e con il proprio corpo ed è in pace con la propria famiglia e la propria classe sociale (lavoratori un po’ petit bourgeois).

Insomma è una di quelle ragazze semplici, perfettamente inserite nella “medietà” scolastica, e sociale, e politica, che non brillano certo per passione o impeto o stimolo intellettuale (però “ti ho inserito nel gruppo delle più carine della classe” le riferisce candidamente una compagna di classe).

Il suo sogno è di fare la maestra, perché “la scuola mi ha dato tanto” e perché ama i bambini.

Poi accade l’irreparabile: la visione, fugace e casuale, di una donna dai capelli blu (“La vie d’Adèle – chapitres 1 et 2 – Le bleu est une couleur chaude” è il titolo originale e completo del film) mette profondamente in discussione le sue certezze ed identità. (1)

A partire da tale visione, e dal successivo incontro con la pittrice Emma, più volte evitato ma pervicacemente cercato, Adele entra in un mondo che non aveva mai conosciuto: dove si discetta di esistenzialismo in Jean-Paul Sartre, delle opere “floreali” di Gustav Klimt o delle pose deformi di Egon Schiele, dove si citano i classici della letteratura e dove è inconcepibile che un talento artistico possa rimanere sprecato. A questo mondo ella si abbandona gioiosamente e placidamente, scoprendo la tenerezza e la delicatezza di un amore puro, e quella passione erotica inebriante e totalizzante che tanto aveva desiderato e sperimentato, con deludenti risultati, in precedenza.

È proprio nelle splendide (anche se molto “montate”) scene di sesso tra Adele ed Emma che il film raggiunge il suo picco sentimentale e narrativo: nelle imperfezioni, nell’ossessiva ricerca e nel naturale intrecciarsi dei loro corpi vi è un che di liberatorio, di pacificatorio e di spirituale; nei loro continui orgasmi una citazione del mito di Tiresia (2), la pura e semplice concretizzazione del desiderio, così distanti dal sesso conturbante e disturbante di un Lars von Trier, ad esempio.

Sarà sempre il sesso, più che le affinità, ad unirle, e via via che la relazione matura e le differenze di classe si acuiscono, passando per esperienze ed incontri non alla portata di Adele, o che per inadeguatezza rifugge, il loro amore diventerà una sorta di àncora a cui aggrapparsi e dedicarsi totalmente.

Quindi Kechiche prima suggerisce, poi evidenzia ed infine declina tutte le difficoltà insite in una relazione non paritaria, mostrando non tanto una banale crisi di amore, quanto una vera e propria apocalisse (anche qui, nel senso più etimologico del termine) sentimentale della propria eroina. Emma esce di scena, per divenire la presenza fantasmagorica di Adele.

L’ultima parte del film non la svelo, essa ricopre un periodo di circa 3 anni, nei quali da ragazza imperfetta Adele si trasforma in donna imperfetta, mantenendo intatto il proprio fascino. Talora un’imperfezione d’animo può contaminare l’intero carattere e nella nuova Adele le stigmate del passato ostacolano la sua realizzazione, che risente dell’incompiutezza di un percorso, quantomeno potenziale, che le era stato offerto.

In tale senso la vicenda si dipana nell’esatto opposto del bildungsroman (3) classico, perché l’autore franco-tunisino non fa sconti alla propria eroina, ma ad Adele ed Emma riserverà ancora una volta uno sguardo delicato con la scena più appassionata e sublime dell’intero film, che ovviamente non posso raccontare.

Infine qualche piccola annotazione tecnica: ottima scelta l’utilizzo della camera a mano e la prossimità ai soggetti, con l’insistenza di primi e primissimi piani (4). Già citate le ossessive inquadrature della bocca di Adele e del cibo in generale (povere ostriche!), altrettanto significative sono le ripetizioni di medesime pose in ambienti e situazioni differenti, a delineare lo scorrere del tempo. Le riprese a scuola e la bellezza degli studenti richiamano invece alla memoria le fantastiche sequenze del già citato L’esquive. In un certo senso si può dire che la scrittura visiva di Kechiche sia più che intima, al limite dell’impudico, quasi pornografica.

La fotografia del fidato Sofian El Fani è molto curata, talora concede qualcosa al formalismo (penso alle scene del parco), ma i corpi e gli amplessi hanno pochi filtri, con tanto di “difetti” e umori e sudori. Ottimo il montaggio: a quanto pare la versione uscita è stata molto rimaneggiata rispetto all’anteprima di Cannes, e si nota l’attenzione riservata al ritmo della pellicola, la cui durata di tre ore non ostacola l’attenzione.

Miglior film del 2013, senza alcun dubbio.

Note:

(1) in questo sono precursori gli iniziali rimandi letterari al libro preferito di Adele: “La vie di Marianne” di Pierre de Marivaux o le passioni sessuali espresse nelle liriche di Francis Ponge, che però la Nostra -distratta- non coglie.

(2) disse Tiresia a Zeus: “il piacere sessuale si compone di dieci parti: l’uomo ne prova solo una e la donna nove”.

(3) romanzo di formazione, ndr.

(4) la pellicola è praticamente priva di campi medi o lunghi: i Maestri Jean-Pierre e Luc Dardenne hanno fatto scuola, e Kechiche ne interpreta peculiarmente la lezione.

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“Diaz – Don’t clean up this blood” di Daniele Vicari

Sgombro subito il campo da eventuali equivoci: per me è difficile recensire “laicamente” questo “Diaz – Don’t clean up this blood” di Daniele Vicari, perchè se è vero che da un punto di vista razionale vi sarebbero diversi elementi da mettere in luce o da criticare, sia esteticamente che stilisticamente (1), è altrettanto vero che da un punto di vista emotivo ha colpito profondamente la mia sensibilità politica. Ricordo infatti con estrema lucidità quei giorni del vertice “G8” di Genova di luglio 2001, ed uno dei rammarichi più grandi è proprio di non aver preso parte alle manifestazioni del Genoa Social Forum che ivi si tennero. Chiusa la parentesi personale, vengo al film.

La trama è incentrata su un fatto ben noto: l’irruzione e lo sgombero dei 93 manifestanti no global che dormivano nelle scuole Diaz, Pertini e Pascoli di Genova, la sera del 21 luglio 2001, tra le ore 22 e mezzanotte, da parte di 346 poliziotti, oltre a 149 carabinieri incaricati della “cinturazione” degli edifici.
Un’irruzione dettata da ragioni di “vendetta istituzionale”, più che di ordine pubblico (il vertice si era infatti concluso e i manifestanti stavano defluendo dalla città). I 93 manifestanti furono picchiati selvaggiamente (63 feriti, di cui 3 gravi), senza che avessero opposto alcuna resistenza, quindi arrestati, e molti poi torturati nella caserma di Polizia di Genova Bolzaneto (240 persone passarono di lì), prima del trasferimento al carcere di Voghera.

Vicari opta per dare un taglio “non politico” alla vicenda, ma alla fine il risultato è molto più politico di mille comizi o prese di posizione “alla Ken Loach”.
Non vengono infatti narrati (se non per brevi frammenti o scorci), né le discussioni o le decisioni prese dai paesi “G8” in quel vertice, né le obiezioni che nel merito mossero i manifestanti. Non vengono approfondite o raccontate né l’ipocrisia delle dichiarazioni dei leader politici partecipanti agli incontri, né quelle dei partiti che si opposero a tali dichiarazioni e decisioni.

L’escamotage per far passare tutto questo in secondo piano è consueto, ma non per questo meno riuscito: raccontare “dal basso” quanto accaduto “sul campo”, attenendosi strettamente alle ricostruzioni giudiziarie e processuali degli avvenimenti, filtrato dagli occhi di alcuni membri del “Genoa Social Forum” e delle forze di Polizia.

Da un lato i manifestanti, di varie tipologie: tanto i volontari dell’organizzazione, medici, avvocati, giornalisti e pensionati dello SPI-CGIL quanto gli anarco-insurrezionalisti, rivoluzionari comunisti o le semplici “teste calde”.

Dall’altro i poliziotti, accettabili quelli “pensanti” (ma ligi agli ordini), e odiosi quelli “fascisti”: in primis i dirigenti “dalle mani pulite” degli uffici decisionali, ma anche i “celerini” senza scrupoli o i tipi della DIGOS, principali autori delle torture.

Il conseguente intersecarsi di storie, agevolato da un fitto e ripetuto montaggio alternato, pieno di flash-back e flash-forward, inframezzato dalle immagini di repertorio dell’epoca e sottolineato dalle splendide musiche di Teho Teardo, permette di avvicinarsi, lentamente ma inesorabilmente, ai personaggi del film, sempre mantenendo una “laica” distanza dalle loro azioni, decisioni e conseguenti comportamenti.

Comportamenti che se risultano discutibili nel caso dei manifestanti, sono indubbiamente coerenti nel caso della polizia, se non per i tratti tragicamente grotteschi delle dichiarazioni rilasciate alla stampa (ad es. le ferite pregresse dei manifestanti o le molotov da se medesimi nascoste e ritrovate).

Il regista (e di conseguenza lo spettatore) non giudica gli eventi, ma non lesina a mostrarli, da cui l’abbondante ed inesorabile profluvio di violenza, fisica e psicologica, che pervade la pellicola, violenza a tratti cruda, ma mai fine a se stessa.

Quest’idea “di distanza” del regista, unita ovviamente alla scelta di riprendere con precisione quanto accaduto nella scuola durante l’irruzione (2), è il principale merito dell’opera, anche se nel contempo potrebbe giustificare la principale e legittima critica che a Vicari è stata mossa: quella di non aver voluto denunciare fino in fondo le responsabilità politiche dei “decisori a monte” di quanto accaduto.

Indubbiamente vengono celati o non pienamente affrontati: i primi giorni delle manifestazioni, il clima conseguente alla morte di Carlo Giuliani, la forte condivisione “bipartisan” delle forze politico-parlamentari nella gestione della sicurezza (già attuata nel “Global Forum sull’e-government” di marzo 2001, a Napoli), il ripetuto e pervicace rifiuto del Parlamento italiano ad aprire una commissione d’inchiesta su quei fatti; finanche l’omissione dei nomi reali dei responsabili delle violenze come da risultanze processuali, ma tutte queste elisioni od omissioni sono pienamente giustificate e giustificabili, perché finalizzate a rafforzare, e non a diminuire, la forza di coinvolgimento del lavoro.

In tale senso il film funziona brillantemente, non tanto dunque per la condivisione politico-ideologica che vi si può o meno rilevare, ma perchè di fronte al racconto è impossibile rimanere indifferenti e, se si è persone minimamente sensate, non prendere una posizione di merito e di parte. (3) Questa è anche la ragione principale per cui le didascalie finali risultano particolarmente emblematiche.

Ultima nota di merito per gli attori più significativi: su tutti spiccano Jennifer Ulrich (meravigliosa!) e Fabrizio Rongione (angosciante), poi un raramente ottimo Claudio Santamaria, molti discreti altri comprimari (Elio Germano, Renato Scarpa, Ralph Amoussou, tra i più capaci, ma anche tutti gli interpreti dei poliziotti), e l’inquietantissimo Mattia Sbragia, nel ruolo di Armando Carnera / Arnaldo La Barbera, il fu “superpoliziotto”, fedelissimo di De Gennaro.

Da vedere e da mostrare, anche ai bambini, perché possano capire il mondo in cui crescere.

-il sito ufficiale del film-

-scheda del film su imdb-

(1) in particolare alcune ardite scelte registiche: si va dalla camera a mano alle panoramiche, con risultati alternativamente efficaci; inoltre talora ho notato un’eccessiva insistenza retorica in certi sguardi e dialoghi, ma sono pecche veniali, compensate da altre scene (l’arrivo di Carnera, Alma e l’ufficiale medico di Bolzaneto) semplicemente bellissime.

(2) curiosa in questo senso la penuria di immagini “ufficiali” al riguardo, in contrapposizione alla reiterata esposizione del corpo di Carlo Giuliani in Piazza Gaetano Alimonda.

(3) A tal proposito è impossibile non constatare l’attualità del ragionamento in relazione alla vicenda del TAV in Val Di Susa, artefice potenziale di una cesura politica che a mio parere è ormai indispensabile.

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Filmmakers al chiostro 2011, la notte horror (una recensione)

Pordenone, 12 luglio – 23 agosto 2011

Dopo una serata inaugurale piuttosto deludente (magari ne scriverò…), il secondo appuntamento con “Filmmakers al chiostro” 2011, festival di cortometraggi di giovani autori che si tiene al Chiostro dell’ex-Convento di San Francesco a Pordenone, è per martedì 19 luglio 2011 con la “NOTTE HORROR“, che si profila come tra le più interessanti (almeno per me). Ho infatti sempre provato una certa simpatia per il genere, che ben si addice e presta alle più svariate sperimentazioni o “attacchi” al gusto e genere cinematografico mainstream.

Purtroppo, e nonostante le buone attese, devo ammettere che solo un paio di corti sono riusciti ad impressionarmi per originalità od irriverenza e che a volte il fenomeno di citazionismo ed omaggio ai maestri del passato (osservabile praticamente in TUTTI i lavori), è risultato sovrabbondante, se non addirittura  ostacolante, un’espressività autenticamente personale ed originale.

Non è un caso che “trionfatore” della serata si sia poi rivelato il film del nostrano Francesco Roder, tra tutti sicuramente quello con meno pretese, ma con tanta e gustosa genuinità (lo ammetto, anche io gli ho dato 3/4, e ho adorato la protagonista).

Per ragioni di lunghezza ho diviso le recensioni in più articoli:

0. La videoanimazione introduttiva: “La violenza è kattiva” di Diego Lazzarin (fuori concorso)  [3 min]

1. Il primo corto in concorso: “A joke of too much” di Francesco Picone [9 min]

2. Il divertente, nonchè vincitore della serata: “Bloody toner” di Francesco Roder [6 min]

3. L’opera più “formale” e meglio curata: “Darkness within” di James Kendall [20 min]

4. Il corto indubbiamente più sperimentale: “Anatomy” di Vincenzo Pandolfi [3 min]

A seguire una tripletta di lavori che ripropone gli immancabili protagonisti del genere horror: gli zombie! Da sincero ammiratore di George Romero e dei suoi amati non-morti sono molto incuriosito, ma i risultati sono altanelanti: dei tre corti quello che meglio ne ha interpretato lo spirito è stato sicuramente l’ultimo, ma andiamo con ordine.

5. Zombie movie #1: “Durante la morte” di Davide Scovazzo [14 min]

6. Zombie movie #2: “Betania” di Andrea Giomaro [20 min]

7. Zombie movie #3: “Scusa amore” di Ichi (Federico Scargiali) [5 min]

L’ultimo corto proiettato invece è parte della “retrospettiva spagnola” che il festival dedica al cinema indipendente iberico:

8. “Juan con miedo” di Daniel Romero [11 min, v.o.]

Ed infine…

I risultati delle votazioni del pubblico (si potevano esprimere voti da 1 a 4):

1° classificato: “Bloody Toner” di Francesco Roder, con una lusinghiera media voto di 3,30 !

2° classificato: “Darkness Within” di James Kendall con una media voto di 2,92.

3° classificato: Betania di Andrea Giomaro con una media voto di 2,88.

Altre info e commenti qui (per chi ama i social network).

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“La violenza è kattiva” di Diego Lazzarin

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La serata si apre come di consueto con una videoanimazione: La violenza è kattiva” di Diego Lazzarin, di cui ho apprezzato intenti (?) ed idee, ma il cui amalgama mi ha poco convinto.

Guerra, sesso, gore, morte (bellissimo lo scheletro a tre teschi!), orge di violenza, king kong, new york e la tour eiffel, insomma gli elementi ci sono tutti ed alcuni molto interessanti (adorabile quella sorta di Osama concubina della guerra al terrorismo, o almeno io così l’ho letto…): musica elettronica martellante, fotografia rosso sangue dominante, eros-thanatos (fulcro dei nostri tempi), character design ed effetti digitali grezzi al punto giusto e molto “ottantiani”.

Però ad un certo punto, lo ammetto, mi sono perso… manca un elemento catalizzante, che funga da cornice alla perversa psiche dell’autore e ci si trova catapultati in un mondo tutto fine a se stesso (forse avrei apprezzato di più se fossi uno psicanalista…).

Il blog dell’autore.

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“Scusa amore” di Ichi

Il penultimo film della nottata (è quasi mezzanotte), è il migliore del trittico zombie-movie, nonchè il più brutale, splatter ed irriverente!
Girato con un cellulare “a zero budget” (e non è difficile notarlo), Scusa amore” di Federico Scargiali (in arte “Ichi”: un nick, un programma), non ha alcuna pretesa di originalità o profondità, ma la freschezza dell’irriverenza ed il gusto del gore non mancano di certo.

Serve raccontare la trama? Una coppia scappa da un turbinìo di zombi lanciati al loro inseguimento e si nasconde in un imprecisato stabile. Solo che lui viene morso e lei è incinta, quindi “Scusa amore”, ma ti devo spaccare la testa con un’accetta! Nella confusione che segue, tra la “sistemazione” del cadavere ed il continuo assalto dall’esterno non viene lesinato nulla, ma proprio nulla, allo spettatore, fino ad un’eccezionale e divertente crescendo finale.

Insomma un film immancabile per una “horror night” che si voglia dire, ma anche un lavoro curato, almeno nel montaggio e nel comparto sonoro, seppur costretto (da evidenti limiti tecnici) ad un effetto fotografico sporco ed ottantiano.

Regista da rivedere con budget e mezzi più appropriati!

Voto 3/4

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“Betania” di Andrea Giomaro

Il secondo zombie-movie, e sesto corto della serata è Betania” di Andrea Giomaro. Come gentilmente esplicatoci dal simpaticissimo regista, “Betania” è il nome della città di Lazzaro, “il primo non morto della storia”, e da lì il titolo prende spunto.

E’ la storia di un’anatomopatologa che viene convocata nel fantomatico villaggio di Betania per presenziare al funerale dell’amatissimo nonno, che l’ha nominata propria erede universale. Svolta la sparutissima cerimonia, in un ambiente dominato dal sospetto e dall’abbandono, il sacerdote officiante, nonchè esecutore testamentario, la conduce alla casa del nonno, ove la protagonista sbadatamente dimentica il proprio telefono cellulare.
Al ritorno per recuperarlo le soprese non mancheranno…

“Betania” è ancora una volta un omaggio ai classici del genere con questa tematica del sacro-profano, della realtà apparente e delle verità nascoste, immerso in buone location ed interpretato da bei comprimari, confezionato inoltre con una bella fotografia desaturata (ovvia l’eccezione del rosso) e condito da una discreta regia ed ottimi effetti speciali.
Però troppe sono le pecche che lo segnano: in primis la scelta di una protagonista poco espressiva e poco calata nella parte, poi da una scarsa attenzione per i dialoghi e per le interpretazioni ed infine, anche qui, da una scontata prevedibilità della trama.

Spiace dirlo, ma non ci sono colpi di scena, nè parti particolarmente crude od impressionanti, nè tantomeno soprese o punti di vista originali. Rimane un’ottima confezione, ma permane sempre questa sgradevole sensazione che le cose avrebbero potuto prendere una piega differente… Insomma un’opera che aggiunge poco al genere, e che avrebbe dovuto osare di più.

Voto 2/4

il sito ufficiale del regista

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“Anatomy” di Vincenzo Pandolfi

La quarta opera è brevissima, solo 3 minuti, si intitola Anatomy” ed è diretto da Vincenzo Pandolfi.

Anche questo un film muto, e si fonda su un articolato esperimento di ripresa in 16mm (impossibile per me non pensare al “Begotten” di E. Elias Merhige), con colori ultrasaturi e filtri gialli e viola. L’esperimento dovrebbe consistere nel rendere angosciante e conturbante una scena di vita quotidiana: un uomo porta la colazione a letto alla moglie e poi sparecchia il desinato, ma qualcosa non è come sembra.

Da qui la scelta tecnica del 16 mm come quella che può garantire la massima immersione, e nel contempo favorire un clima di tensione sottolineato ossessivamente da una colonna sonora claustrofobica (ed ottimamente scelta). Il risultato però non è dei migliori: le didascalie spezzano fastidiosamente il ritmo della vicenda, e per quanto indispensabili non danno linearità nè alla chiarificazione nè alla stessa rivelazione finale, non di immediata lettura.

Non che sia tutto da buttare, ma se chiedi un certo sforzo allo spettatore dal punto di vista visivo, devi garantire altrettanto dal punto di vista emotivo. Altrimenti il tutto rischia di apparire fin troppo freddo e fine a se stesso, un’anatomia, per l’appunto… era questo l’intendimento?

Voto 2/4

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“A joke of too much” di Francesco Picone

Il primo cortometraggio in concorso è A joke of too much” di Francesco Picone.

A detta del regista un omaggio dichiarato e agli horror “ironici” del passato e alla serie “Grindhouse” della coppia Tarantino / Rodriguez (in verità deve più a costoro…). Come in Grindhouse, il film si apre con un finto trailer: “L’invasione dei vermi mutanti”, divertente parodia de “L’invasione degli ultracorpi” più “I visitors”, ma insomma… da subito si nota come il tutto sia un po’ sfilacciato e tirato per le lunghe, ed in tal senso qualche taglio in più avrebbe giovato; anche le battute strappano appena qualche sorriso.

Passato il trailer veniamo al film vero e proprio, che segue il canovaccio classico della coppietta che si infratta e la cui gita amorosa viene bruscamente interrotta dal solito omicida seriale pazzo e appena scappato di prigione (e ti pareva!).
Il tutto condito da battute di facile e dubbia volgarità e dallo scherzo del titolo, che si rivelerà (come nel più classico film di genere) un’involontaria anticipazione della fine fatale.

La recitazione è poco convincente, la scena dell’inseguimento è confusionaria, ci sono svarioni di fotografia che sinceramente non ho capito e gli effetti sono di serie Z, ma questo non sarebbe nemmeno un problema, se accompagnati da una storia minimamente originale.

Forse per rendere un po’ più appetibile il tutto si poteva sviluppare maggiormente la parte “eros”.

Voto 1/4

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“Bloody toner” di Francesco Roder

Il secondo lavoro, Bloody Toner” di Francesco Roder omaggia l’horror degli anni 20, attraverso una riuscita parodia muta in bianco e nero dei classici di genere. Opera realizzata in sole 60 ore per il premio Collio Cinema di Gorizia (se non ho capito male…), tutto il mio plauso agli autori per essere riusciti ad inventarsi e condensare in 6 minuti un soggetto veramente divertente.

La storia di una fotocopiatrice demoniaca che si scatena con la goccia di sangue di una vergine è quanto di più improbabile possa pensarsi, ma qui la sospensione dell’incredulità è egregiamente sostenuta da una messa in scena veramente efficace. Gli “eccessi” registici non sono sovrabbondanti, la recitazione tutta sopra le righe (ancora un plauso alla protagonista, deliziosa) è convincente, le scelte di montaggio danno ritmo e brio al tutto, finanche le didascalie sono ottime: ironiche e divertenti. Insomma un lavoro onesto, ben girato, e soprattutto originale, senza tronfie o troppe pretese di esplicare chissà quali proponimenti… Ed in tale quadro e tale ottica posso ben volentieri mancare di eccepire a stereotipi ed anacronismi, ma semplicemente divertirmi.

Regista da rivedere in ambiti e modi più articolati.

Come già detto alla fine il film è risultato (meritatamente) il vincitore della serata, con una media voti di addirittura 3,30. Il fatto che non sia propriamente orrorifico la dice lunga sulla qualità delle altre pellicole in concorso.

Voto 3/4

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“Durante la morte” di Davide Scovazzo

Il primo zombie-movie della serata si intitola Durante la morte” di Davide Scovazzo, di cui ho apprezzato sicuramente il dichiarato intento: quello di utilizzare un linguaggio classico del cinema di genere per raccontare qualcosa di differente.
Girato (in digitale) interamente a Genova, tra archittetture indubbiamente inquietanti e decadenti, si ispira ad una frase dello scrittore Niccolò Ammaniti (*), che a detta del regista gli ha ispirato la storia.

Essa principia all’alba: in un anonimo monolocale suona una sveglia, il nostro protagonista si alza e, ben bardato, comincia la propria errabonda giornata, senza una meta precisa, ma senza variazioni di rilievo (così almeno ci rivela la voce fuori campo). Per una buona parte del film egli non fa altro che incontrare non morti che si comportano come vivi e scappare da loro, e per 4 volte ci viene riproposta la medesima metodica incontro-rivelazione-fuga. Per carità, il trucco è discreto e non lesina trovate divertenti, ma ho trovato francamente eccessiva questa riproposizione, soprattutto perché non finalizzata ad alcun avanzamento della trama. Ad un certo punto il nostro, esausto, viene finalmente catturato, e da lì un brusco taglio apre la seconda parte del film, che conduce rapidamente alla rivelazione finale.

La prima cosa che colpisce è la precarietà della recitazione, nonché l’abuso della voce fuori campo… spesso ridondante, poteva tranquillamente essere omessa.
La seconda cosa che colpisce è che il “qualcosa di differente” del regista in realtà è uno dei temi portanti del cinema di Romero: gli zombie non sono differenti da noi, e sono finanche meglio di noi. La storia degli zombie che non si riconoscono come tali, che rimpiangono e perpetuano la propria vita passata, non è altrettanto nuovissima (basti pensare agli zombie di “Land of the dead”, che nel mondo fuori dalla città continuano ad esercitare le proprie attività e lavori). Ma a parte questo, il film è almeno coinvolgente?

Direi molto a tratti: belle le location e buona la fotografia, ottimi gli effetti sonori ed il trucco, ma sinceramente a questi zombie non ci si affeziona, sono morti più che “non morti” (anche se parlano, e ridono, e amano) e sono strumentali esclusivamente ad un’idea di fondo ben poco sorprendente…

Insomma un film da rivedere e da curare soprattutto nelle interpretazioni, o almeno da rimontare eliminando una parte di superfluo.

Voto 2/4

(*) la frase dovrebbe essere: “i ricordi sono zombie che ti uccidono instillandoti una nostalgia che ti leva il respiro”.

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