Non solo profitti

L’economia solidale è un fenomeno complesso, che investe non solo il modo di produrre, ma anche di consumare e di impostare relazioni.
Parlarne significa accennare, almeno per stabilire un confronto, anche all’economia tradizionale, neoliberista, che ha nella legge di mercato e nel profitto le sue regole fondamentali.
In questa teoria economica, semplificando, altre considerazioni, come i riflessi sociali o gli impatti ambientali della faccenda, sono considerati solo fastidi da scacciare come un pensiero cattivo o da valutare proprio quando non se ne può fare a meno per evitare danni peggiori.
Tuttavia questi problemi esistono, si manifestano, condizionano il vivere sociale e allora, se non si può eliminare del tutto la legge del profitto e del mercato perché sarebbe controproducente e dannoso anche per la collettività, come afferma Amartya Sen, economista, premio Nobel nel 1998, ci si chiede se non se ne possano limitare gli effetti, affiancando a quello tradizionale, un modello di creazione e di acquisizione di beni e servizi che preveda anche lo sviluppo delle persone, che ne rispetti la dignità, che abbia di mira uno sviluppo sostenibile, che non distrugga l’ambiente, che abbia attenzione ai Paesi poveri.
La risposta è affermativa ed è l’economia solidale, o economia civile, o di comunione che può, sempre secondo l’opinione di Amartya Sen, diventare complementare alla prima.
Questa teoria economica non è un’utopia come dimostrano efficacemente innumerevoli iniziative messe in atto, ispirate alle sue idee base che si possono così riassumere:

  • l’economia della solidarietà non è carità, ma un modo serio e, in molti casi, produttivo e creativo di intendere l’intraprendenza economica;
  • essa coniuga, accanto all’efficacia ed all’efficienza, il rispetto del giusto salario del lavoratore, un coinvolgimento diretto di questi nei processi decisionali della struttura, il rispetto delle risorse ambientali, l’attenzione, anche umana, al cliente-utente, la democrazia interna nelle aziende;
  • si fonda inoltre sul criterio della reciprocità  per strutturare rapporti interni ed esterni.

Appare chiaro, da quanto detto, che aderire a questo modello economico implica anche un modo diverso di concepire il proprio modo di essere consumatori. Significa cioè pensare, come diceva un grande capo indiano, che la terra non ci è stata data in eredità dai nostri padri, ma in prestito dai nostri figli, e che a loro dovremo rendere conto delle condizioni nelle quali gliela restituiamo.
Bisogna, in una parola, ricalibrare le scelte del consumo quotidiano, modificarne la struttura secondo giustizia, chiedendosi perciò da dove viene un certo prodotto, quali materie prime sono state impiegate, come sono state pagate, chi ci ha lavorato, che conseguenze ha subito l’ambiente, etc…
Un altro aspetto interessante di questa nuova progettualità economico-finanziaria è il fiorire di tante esperienze collettive radicate sul territorio, che offrono diverse opportunità e strumenti  concreti di sbocco.
Ecco nascere, a partire dagli anni ’80, Cooperative sociali, Mutue di autogestione, Banca popolare etica, Bilanci di giustizia, Fondazioni  di prevenzione dell’usura, Gruppi di acquisto solidale, Conti etici, etc..
Alla base di tutte queste iniziative c’è lo strumento innovativo, direi anzi rivoluzionario del microcredito che, nato nel Terzo Mondo ad opera dell’economista e banchiere Muhammad Yunus, fondatore della Grameen Bank, ha trovato applicazione e forte presa anche nell’Occidente e che si basa su un concetto molto semplice: anche un povero, senza garanzie reali o patrimoniali, quando ha una buona idea, deve poter accedere al credito per provare a realizzarla. Aumenta così la dinamicità economica, sociale ed anche politica.
Inoltre, come osserva ancora Amartya Sen, “il microcredito è un movimento creativo: è contro la tradizionale economia di mercato che non presta denaro senza garanzie, ma non è contro l’utilizzo del mercato”.
Progetto economico quindi, non carità. Le prime a servirsi dello strumento del microcredito in Italia sono state le Mag (Mutue di autogestione), prima fra tutte quella di Verona nel 1978, che rifacendosi ad esperienze ottocentesche di autofinanziamento messo in atto nelle classi povere, si misero a raccogliere denaro per usi alternativi, per sostenere imprese autogestite no-profit, che tentavano di conciliare esigenze produttive con quelle sociali ed ambientali.
Le Mag supportavano l’azione di prestito con interventi di promozione, consulenza, formazione, accompagnamento.
Il successo dell’iniziativa, il suo dilatarsi hanno poi convinto le Mag che serviva un grosso soggetto finanziatore, forte, significativo ed autorevole, ed è nata così, con il concorso di altre forze, nel 1995, la Banca popolare etica, “una splendida fionda di Davide” come l’ha definita padre Alex Zanotelli, una banca che finanzia i soggetti del terzo settore (MAG, Cooperative sociali, ONG, Gruppi di volontariato, etc.) che hanno un progetto serio di sviluppo di solidarietà anche in termini imprenditoriali e non solo umani e sociali. Ma questo strumento dell’economia solidale e le sue peculiarità vi saranno ampiamente illustrati dalle relazioni di questa sera, alle quali io passo il testimone.

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