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Persone di ieri: la Diana Furlana

Penso che in ogni paese ci siano  stati e ci siano dei personaggi per così dire “originali”, marginali e a volte emarginati, dai comportamenti un po’ fuori dagli schemi. Questo si  verificava naturalmente anche a Gruaro e negli anni ’50 e ’60 una in particolare di queste persone, perché si trattava di una donna, aveva acceso la nostra fantasia di bambini.

Abitava di fronte alla latteria di Bagnara, in una casupola tirata su sommariamente con pochi mattoni e tavole di legno, con accanto un grande fico che l’avvolgeva tutta, anzi meglio l’abbracciava.
Nei pomeriggi di primavera, dopo la dottrina, noi bambini ci ritrovavamo a giocare insieme in piena libertà senza limiti di spazio e noi ci intrufolavamo dovunque, ogni luogo andava bene; un giorno decidemmo di andare a vedere da vicino quella casa così strana; arrivati nel cortile, fummo presi da una irrefrenabile curiosità di entrare e di vedere cosa ci fosse dentro.

La paura era tanta, ma maggiore era la sfida con noi stessi, il desiderio di metterci alla prova.
“Chi ca a il coragiu da zi lì dentru a no l’è un fifon”
Non aspettavamo altro, i coraggiosi non mancavano e noi femminucce non ci tiravamo certamente indietro: “Beh,noi no vin paura di sicur…però seo sicurs che lì dentru a no l’è nessun? E di chi ca ei sta ciasa?”
“Mi lu sai, ei dela Diana Furlana.”
“Sì, propiu dela Diana Furlana..e a disin ca sei ‘na stria.”
“Sì, figurati ‘na stria! Allora dinu dentru sì o no?”
“Mi vai par prin…”
E seguendo l’eroe entrammo tutti, furtivamente, con qualche timore.

Il pavimento della stanza che ci accolse era in terra battuta; l’arredamento era costituto da una piccola stufa su cui era posato un bricco tutto annerito dal fumo, da un tavolino coperto da una tovaglia ricamata a grosse rose rosse, da due sedie e da un letto sfatto, se così si poteva chiamare quella rete appoggiata su blocchi di cemento, con un materasso a righe bianche e marrone, riempito di foglie di mais, su cui riposava un bellissimo gatto nero, sopra una coperta bella pulita a fiori rossi e gialli.
Alle finestre erano appese, in sostituzione di alcuni vetri mancanti, coperte lavorate all’uncinetto con un motivo di piccoli riquadri di svariati colori.
La luce che filtrava attraverso i trafori di quei ricami era colorata e donava un’atmosfera strana e misteriosa alla stanza.
Contribuiva molto ad alimentare questa sensazione l’odore presente nell’ambiente, un misto di fumo e grasso, mescolato al profumo della lavanda che pendeva in enormi mazzi dalle travi del soffitto.
Nell’armadio erano appesi degli abiti, che a noi sembravano molto strani, ma erano semplicemente fuori moda: erano bellissimi, avevano pizzi, velluti fiorati ed avevano tutti gonne molto ampie.
Ma poi vidi lo scialle appeso al muro e me ne innamorai. Era bellissimo, con lunghe frange di seta nera che mettevano in risalto il pizzo con cui era fatto.

Altre cose in quella stanza meritavano di essere notate, ma non le vedemmo perché sulla porta era apparsa lei, la Diana Furlana, piccola, minuta, con lunghi capelli neri e lucidi, coperti in parte da un fazzoletto di seta legato stretto stretto sotto il mento; la sua faccia aveva tratti gentili, gli occhi erano neri e buoni. Teneva la testa reclinata da un lato, come le persone timide e schive. I suoi indumenti erano di una taglia più grande: indossava una gonna ampia, lunga fino alle caviglie, a fiori colorati su fondo nero, stretta in vita da una alta cintura rossa. L’orlo della gonna era irregolare, a “piciandulon” insomma.
Sulle piccole spalle era appoggiato uno scialle, quasi uguale a quello che avevo ammirato appeso al muro e che riusciva quasi a coprirla tutta.
Le scarpe erano di pelle nera, con cinturino e grossi tacchi alti.
Rimase sulla porta, immobile, muta e ci guardava…

I ragazzi, dopo un momento di esitazione, scapparono e, passandole davanti di corsa, quasi la fecero cadere.
Lei sorrise. Anche le bambine scapparono, io rimasi per ultima con la mia amica del cuore e guardandola negli occhi le passammo davanti e, sottovoce, le chiedemmo scusa. Lei si strinse nel suo scialle, nascondendovi la faccia e con quella specie di abbraccio ci fece capire che non era arrabbiata.

Abitava da sola la Diana Furlana e girava per il paese con la sua bicicletta, sempre vestita con abiti fiorati e avvolta nei suoi scialli e, mentre pedalava, parlava da sola e la gente diceva che era un po’ matta, ma per quello che io so non ha mai fatto male nemmeno ad una mosca.

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Tempo di sagra

Che momento stupendo la sagra, specialmente se hai 9 anni. Siamo nel 1957, io ero, come già detto, una bambina e ricordo che la sagra a Bagnara incominciava con la processione del patrono, San Liberale e cadeva sempre la prima domenica di luglio ed era chiamata: La sagra dei giambars.

Quanta gente c’era a seguire la processione in quei pomeriggi caldi, d’estate. C’era il paese intero e tutti, tra una preghiera ed una litania, ammiravano le ragazze; anch’io non riuscivo a distogliere gli occhi da quelle fanciulle che conoscevo bene, e che in quel giorno di festa si trasformavano e sfoggiavano degli abiti stupendi ai miei occhi, alla moda, che in realtà non avevano niente di straordinario: corpetto aderente, colletto bianco, gonna larga, a ruota intera, cintura in tinta stretta in vita. Erano confezionati con la stoffa in voga a quel tempo, il nailon, ed erano perlopiù a fiori. La stoffa era leggerissima e trasparente e per mimetizzare quella trasparenza, sotto si metteva una sottogonna, bianca, con tanti volants di sangallo, inamidata che rimaneva rigida  che dava volume al vestito che, così sostenuto, si allargava a corolla con un effetto di grande grazia ed armonia. Le scarpe poi, anzi i sandali, erano di solito bianchi, con i tacchi a spillo, alti almeno 10, 12 cm. L’abbigliamento era completato da una borsetta anch’essa bianca e da guanti in pizzo, bianchi. Non mancava un golfino fatto a ferri, per coprire le spalle, visto che in chiesa non si entrava con le braccia scoperte.
Alle volte un nastro adornava la cascata di capelli, lunghi, ricci, castani, biondi, neri, naturali, non tinti. Erano così le ragazze di quel tempo, belle, femminili ed eleganti.

Finita la processione arrivava Ceci, mitico, il gelataio; arrivava da Sesto al Reghena con quella strana bicicletta, corredata di carrettino. Lui, con dieci lire o un uovo, ti dava un cono di gelato, buonissimo, fresco, che profumava di vaniglia e cioccolato e ci aggiungeva anche la palettina in legno che noi ragazzi conservavamo gelosamente, per giocare, per il resto dell’estate. Finita la processione ed il rito del gelato, la piazza si svuotava, perché tutti andavano a cena, ma ancor prima che il sole tramontasse, essa si riempiva di nuovo perché incominciava il ballo su “vasta piattaforma” o meglio ancora, “piantaforma” come dicevamo noi.

Naturalmente eravamo noi bambini a collaudarla anche se regolarmente venivamo mandati via con un: “Nu si puol! Deit via. No vedeo che vin pena butat par tiara la cera?”. Noi ubbidivamo a malincuore, ma avevamo avuto la nostra piccola soddisfazione di essere stati i primi. A volte capitava che io chiudessi gli occhi e fingessi di danzare come le ballerine. In quel momento mi giungevano al naso, mescolati insieme, i più svariati odori: quello di rose, di cera, di sapone, di brillantina (perché non c’era uomo o ragazzo che non se la mettesse a quei tempi sui capelli che poi ravviava con un pettinino estratto dal taschino) e anche di stalla, visto che era estate e che le corti di letame erano in fermento e che ogni casa aveva la sua.
A seconda di come tirasse il vento le zaffate di letame variavano di intensità… ma era tutto assolutamente normale e naturale.

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L’oca

“Se nu ti magni i ti imboconi coma una oca!”

Questa, anni addietro, era una frase ricorrente ed era rivolta naturalmente ai bambini che non volevano mangiare. La povera oca in questione mi ha fatto sempre tenerezza, sin da quando ero piccola e mi veniva affidata, assieme alle “sorelle”, perché la portassi a pascolare dove l’erba era più tenera.
Loro mangiavano ed io restavo là seduta a guardare le nuvole e a fantasticare; ma naturalmente avevo anche  con me un centrino da ricamare per evitare di restare inoperosa (cu li man in man).
Il tempo passava loro crescevano ed io con loro; arrivava così l’autunno ed incominciava l’ingrasso.

“I ti ai da imparà a imboconà li ochi”.
Non era un suggerimento ma un ordine, al quale non avevi nessuna possibilità di sottrarti e quindi prima lo eseguivi meglio era.
La maestra di solito era una nonna o una zia “vedrana”, a me invece toccò uno zio abbastanza avanti con gli anni, grande e grosso, “un tocon di om”, e con la gentilezza di un orso che un giorno mi disse “Ven par cà! Ti vuol imparà a imboconà li ochi. Ti lu fai viodi.”

Il tono non ammetteva repliche pertanto lo seguii nel recinto delle oche e per darmi un contegno e far vedere la mia buona volontà mi misi a rincorrerne una, con l’intento di prenderla.
Al che l’omone, con un grugnito che voleva essere una risata, mi bloccò e mi fece cenno di scansarmi e “Fermiti! Si ti li fa cori cussì a se ca serf imboconali?”
E mentre diceva questo, trac, aveva già afferrato il collo lungo e piumoso dell’oca. La mia oca! Quella che avevo coccolato sin da piccola; il mio cuore si fermò… “La mia oca, no!” urlai dentro di me; ma lui, imperterrito, si avviò verso il sotpuartin, una tettoia posta a ridosso della stalla, sostenuta da pali di legno e con il tetto ricoperto da canne (ciani cargani e cianoi).

Arrivati sul posto, sempre gentilmente, si fa per dire, lo zio mi sbatté l’oca in braccio; preoccupata mi chiesi “Perché?”. Il perché fu presto spiegato: lui doveva prepararsi per il rito dell’“imboconadura”. Lo vidi mettersi un grembiule lungo e largo, fatto con avanzi di stoffa cuciti insieme, praticamente un nisuol, perché per coprirlo tutto quel suo pancione ci voleva veramente un lenzuolo.
Finita la vestizione, gettò un sacco di iuta per terra e ci mise accanto uno strano imbuto che nella parte superiore, in corrispondenza dell’imboccatura, aveva una manovella, come quella del macinino del caffè, ci aggiunse un secchio d’acqua ed uno di mais. Tutto era pronto.
Lo zio si inginocchiò e mi disse di passargli l’oca. Io gliela porsi, esitante e lui se la strinse tra le gambe. Io preoccupata esclamai dentro di me “Uddiu me la sclissa!”.

L’oca si dibatteva, ma lui le afferrò la testa e gliela tenne ferma, le aprì il becco a forza e le infilò lo strano imbuto in gola; con la mano libera raccolse un pugno di mais, lo mise nell’imbuto e cominciò a girare velocemente la manovella finché il mais non fu sceso tutto, completò l’operazione facendole ingoiare un mestolo d’acqua.
Gli feci osservare che il mais si era fermato tutto in un solo punto del collo del volatile. “Sta tenta coma ca si fa!”.
Lo zio allora con la mano libera e con la grazia infinita delle sue dita grosse come salsicce, manipolò con destrezza il collo fino a far arrivare il mais nel gozzo della povera oca. Poi, senza tanti complimenti, si alzò e con un cenno perentorio mi indicò il suo posto dicendomi: Vidin se che ti à capìt.

Io, non so perché, ma  mi sentii sollevata nel vedere che la mia oca non era più sotto quella montagna d’uomo e che adesso toccava a me: sarei stata senz’altro meno violenta… e mi venne, dalla gioia persino voglia di cantare e così feci, mi misi a cantare. La mia oca, secondo me, fu felice di quel cambio, perché mi mostrai all’altezza e in un baleno e con grande dolcezza portai a termine quella tortura.
Naturalmente l’operazione si ripeté anche nelle sere successive fino a che le oche non furono ritenute pronte, belle e grasse, per la mattanza.

Forse oggi tutto questo può sembrare crudele, ma erano comportamenti dettati dalla necessità: il grasso d’oca era pregiatissimo e veniva usato al posto del burro; il fegato poi, un boccone da re, e la carne, a cui veniva data una mezza cottura, era riposta in orci di pietra, ricoperta del suo grasso e messa sotto un metro di terra. Una vera risorsa prelibata per l’inverno e la primavera, per le famiglie numerose.

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Ricordi di scuola…

“Bene, mettete le mani sul banco e abbassate la testa.”

A pronunciare queste parole, il mio maestro di scuola, nel lontano 1957. Succedeva spesso che, entrando in classe, il maestro esordisse con questa frase. E già lì le gambe incominciavano a tremare ed egli, impassibile, ti si piazzava a fianco, ti prendeva le mani, ispezionava le unghie, poi passava ad annusarti il collo, a scrutarti le orecchie, i capelli (in cerca di eventuali pidocchi), i piedi ed anche i vestiti, perché non gli importava che fossero miseri, ma puliti sì. Se il tutto non odorava di sapone, ti faceva accomodare gentilmente, si fa per dire, di fronte alla lavagna.

L’unico conforto era che difficilmente ti ritrovavi da solo, specialmente se era una di quelle mattine gelide di gennaio, allora le probabilità di essere in compagnia davanti alla lavagna aumentavano vertiginosamente.

La spiegazione è presto data: pensate ad una bambina di nove anni che, in quegli anni, veniva scaraventata giù dal letto alle prime luci dell’alba, in una camera fredda; come prima reazione la suddetta bambina si rintanava precipitosamente, di nuovo, sotto le coperte e lì cercava di vestirsi senza prendere troppo freddo. Poi scendeva di corsa in cucina, dove non faceva sicuramente ancora caldo, poiché l’unica stufa era stata accesa da poco, sempre sperando che quella mattina il tiraggio del camino fosse perfetto, altrimenti si poteva ritrovare anche con le finestre aperte, e mentre lei, tremante di freddo, cercava di avvicinarsi alla fonte di calore, sua madre, indaffarata a controllare il pentolino del latte per impedire che il liquido si riversasse sopra la piastra incandescente, con conseguente odore acre di bruciato, le urlava: “Se fatu chi? Vara che ora ca l’è! Va’in spassacusina e laviti, se no ti fa tars. Dai, su, muoviti.”

La spassacusina era una piccola stanza di un metro e mezzo per novanta, dove, accostato al muro, troneggiava un lavandino (il scafar) in granito, di un metro di lunghezza e sessanta centimetri di larghezza, composto da una vaschetta e da un ripiano, dove si mettevano i piatti a scolare, sormontato da una mensola di legno con dei ganci dove venivano appesi) i secchi d’acqua (i mastiei) con annesso mestolo (cop) per attingere l’acqua necessaria e per lavare i piatti e per lavarsi mani e viso, cambiava solo il recipiente (nel secondo caso si usava il catino).

Il catino appunto, pieno di acqua fredda, era l’incubo di tutti i bambini, per cui, dinanzi ad esso facevano praticamente come il gatto: con due dita si strofinavano gli occhi e il sapone lo annusavano, perché a loro quel profumo piaceva e… via. Quindi era facilissimo, nelle mattine particolarmente rigide, finire a far compagnia alla lavagna.

Tornando alla situazione di partenza, completata l’ispezione il maestro decideva la punizione: se risultavi che ti eri lavato solo con l’acqua, però ti eri lavato, ti dava solo una pagina di penso, da ricopiare dal libro di lettura. Se le unghie erano lunghe e un po’ sporche, ti prendeva e ti metteva dritto sull’attenti, poi ti inclinava la testa a destra, con una mano ti prendeva l’orecchio sinistro e con l’altra ti mollava uno schiaffo. Anch’io ho provato questa “bella” esperienza e vi assicuro che non ricordo tanto il dolore fisico, quanto le mani, perché quelle del mio maestro non si potevano definire tali, ma due pale, con le dita grosse che, ai miei occhi di allora, sembravano salsicce. Quando tu te ne vedevi piombare in faccia una, già eri morto per la paura. Però, alla fine, quella mano minacciosa planava dolcemente sulla tua guancia. Il perché di quella messinscena l’ho capito molto tempo dopo: la vera punizione era la paura provata alla vista della mano possente che si levava, non l’effetto del gesto; e lui, il mio maestro questo lo sapeva benissimo.

C’erano poi altre punizioni più pesanti moralmente, come doversi lavare in piazza, alla fontanella pubblica. La vergogna era grande e te la dovevi tenere, anche perché i tuoi genitori, una volta saputo cosa era successo, ti consolavano a suon di sberle. Ma la scuola non era solo questo, severità e castigo.

Quando riuscivi finalmente a risolvere un problema, a svolgere un tema, a leggere bene una pagina, a scrivere con bella calligrafia senza errori, a capire che oltre al tuo paese ne esistevano altri con gente di colore diverso, a scoprire l’esistenza di fiumi, montagne e mari lontani, e ad accorgerti che, molto tempo prima, erano vissuti altri uomini come te e diversi da te, allora intuivi che avevi fatto una conquista, un passo avanti e che tu possedevi qualcosa che nessuno ti avrebbe potuto togliere, ma poteva solo crescere, e allora la scuola non era più solo fatica, rigore e punizioni.

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Una notte d’inverno una bambina…

Era il 6 gennaio del 1958, ed io stavo dormendo, beata, nella camera che dividevo con mio nonno e mio fratello, nel mio letto, sul mio bel materasso di foglie di mais, quando mia madre venne a svegliarmi, o meglio a buttarmi giù da quel bendidio e, mentre cercavo di capire chi o cosa fosse successo, mi ritrovai a cavallo della bicicletta con in mano la borsa del pranzo di mio padre, mentre mia madre, per la terza volta mi ripeteva di fare presto, di correre alla stazione a portare quella borsa. Finalmente capii: mio padre si era scordato di portarsi il pranzo ed io dovevo andare alla stazione di Cordovado per riparare alla dimenticanza.

Dovevo arrivarci prima che il treno partisse. Avevo 10 anni, arrivavo a malapena ai pedali della bicicletta; quella mattina poi faceva un freddo cane, anche perché addosso avevo solo delle calze di lana di pecora, che mi arrivavano a stento un po’ più su delle ginocchia, tenute ferme lì da due elastici, una misera gonna ed un golf di mia madre, e sì, perché almeno così mi copriva tutta, una sciarpa ed un fazzoletto in testa.

Fuori faceva ancora buio, erano le 5 del mattino. Io abitavo vicino al cimitero e quindi dovevo per forza passare di lì; mi feci forza e, per distogliere lo sguardo da quella direzione, guardai su, in alto, il cielo e, meraviglia, scorsi la luna.
Rimasi senza fiato per quanto era grande e mi parve bellissima; d’improvviso mi resi conto che non l’avevo mai vista così.
Mi sentii rincuorata e, dando un occhio alla strada e uno alla luna, presi a pedalare più forte che mai. Superai Bagnara, arrivai al ponte della Roia e, dentro di me pensai “Chissà cosa diranno di me le donne al lavatoio…!”.

Ma il lavatoio era deserto.
Dove erano finite tutte le sue assidue frequentatrici che, a detta loro, erano già lì alle 4 del mattino, pronte a disputarsi il posto migliore? Sparite! Come mai quella mattina non c’era nessuno? “Sempri fortunada mi!” pensai.

Pedalavo sempre con lena ed arrivai al ponte sul Lemene, ma anche lì, nessuno, nonostante nelle vicinanze ci fosse la “Tisa”, una fabbrica tessile.
Niente non c’era anima viva… c’eravamo sempre solo io e la luna.
Continuai la mia corsa solitaria, ma un po’ di paura mi assalì nuovamente, quando mi trovai di fronte il sottopassaggio della ferrovia, simile ad un buco nero pronto ad inghiottirmi. Ma a rincuorarmi ci pensò il rumore dell’acqua di una piccola roggia lì vicino, ed allora il mio pensiero corse al mulino che sorgeva sulla riva e che mi piaceva tanto. Che meraviglia scoprirlo ora alla luce chiara della luna, con le pale che giravano e facevano cantare l’acqua! Così la paura passò. Ormai ero quasi arrivata.

Ricordo come adesso la volata che feci, quando  mi si presentò davanti lo stradone che portava diritto alla stazione.
Ansimante scesi dalla bicicletta, proprio mentre il treno arrivava; mi precipitai dentro di corsa, ma di botto mi fermai: la sala d’aspetto era piena d’uomini che aspettavano il treno; ebbi un momento di smarrimento, perché tutta quella gente mi impediva di vedere mio padre.

Non so perché, ma ricordo che gridai, forte: “Papà!”.

Tutti si girarono ed io, intimorita da tutti quegli sguardi, mi sentii diventare piccola piccola… mio padre si fece largo tra la folla e, senza parlare, mi si avvicinò e piano, sottovoce, mi disse: “Ciuta, ma se fatu chì?”. Io, senza dire niente, gli porsi la borsa del pranzo, lui la prese e mi disse: “Grasie, va a ciasa, pissula!”.

E mentre lo diceva gli ridevano gli occhi e dalla sua mano spuntò, come per magia, una caramella alla menta. Qualcuno chiamò mio padre e lui, salutandomi con la mano, se ne andò a prendere il treno.

Uscii dalla stazione che mi sentivo come se camminassi a mezz’aria, stringendo quella caramella che, se ben ricordo, mangiai a più riprese, perché non volevo che finisse.
Sulla via di casa, salutai la luna che se ne andava a dormire. Questa volta di gente ne trovai tanta per la strada e tutti volevano sapere cosa facessi lì a quell’ora, da sola.

Quando giunsi al lavatoio poi mi dovetti  perfino fermare per soddisfare la curiosità delle donne che non si capacitavano di vedermi in giro così presto; ma io spiegai tutto, con orgoglio, perché era una prova da grandi quella che avevo affrontato e mi sentii gratificata dai complimenti che mi fecero sentire protetta e parte di una comunità.

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La ciàmbara dei nùvis (la stanza da letto degli sposi)

Torniamo ancora una volta indietro nel tempo, per l’esattezza al 1930, alla casa-tipo di quegli anni e ai suoi abitanti. Ci troviamo i nonni, gli zii, i figli e i figli dei figli…
Le figlie femmine, sposandosi uscivano di casa, i maschi invece portavano in casa le proprie mogli e avevano il diritto ad avere una camera tutta per loro, una vera conquista, visto che fino a quel momento erano vissuti in promiscuità con fratelli e cugini.

Che meraviglia, ai miei occhi di bambina, quella stanza! Ecco il bel comò, sormontato dalla specchiera, spesso intarsiata con gusto, sul cui ripiano faceva bella mostra di sé la sveglia regalata il giorno delle nozze dalla “santola” di Cresima, con accanto il carillon con la ballerina che danzava, danzava… il tutto appoggiato su un centrino ricamato ed inamidato.

Non mancava poi l’armadio a due ante (solo pochi fortunati lo avevano a tre), che bastava per i vestiti di tutte le stagioni, di marito, moglie e figli e di cui si sfruttava ogni angolino; se serviva, si aggiungevano sopra due o tre cestini o scatole o una valigia. A completare l’arredamento della stanza c’era la toeletta, bellissima, con la sua specchiera, dove ci si poteva vedere quasi per intero. Anche qui, sul ripiano c’era un centrino, e posate sopra, a mo’ di cimelio, la spazzola ed il pettine con il  dorso e il manico di madreperla e, a completare l’incanto, la boccetta di profumo, in vetro lavorato con il suo bel spruzzatore a pompetta, e la scatola del borotalco con il piumino.

Tutti quei tesori erano lì, bene in vista, ed esercitavano su noi bambine una attrazione irresistibile; ma guai a toccarli, fioccavano minacce terribili (ti tai la man!). A completare l’arredamento due sedie in legno verniciato con sedili imbottiti e, a lato del letto, corredati di acquasantiera, i comodini, che nascondevano il vaso da notte.

Il letto poi, grande… immenso, con le sue reti di ferro, un materasso di crine e uno di piume d’oca, le lenzuola ricamate, bianche, la trapunta invernale, quasi sempre color oro e, a ricoprire tutto, quei meravigliosi  copriletti bianchi damascati e con le frange, che si usavano solo quando arrivava il dottore, o dopo il parto, perché in quella camera si snodava la storia della famiglia: qui avvenivano le nascite, si curavano le malattie, si tenevano i colloqui importanti tra i coniugi, ci si congedava dalla vita.

Sopra la testiera del letto era appesa l’immagine della Sacra Famiglia, da cui pendeva un rametto di ulivo benedetto,o la fotografia, ritoccata, degli sposi ed esse, avevano per noi lo stesso fascino di un dipinto. In un angolo poi c’era il portacatino, con la sua brocca, il portasapone, dove era adagiata la saponetta profumata che quasi consumavamo a furia di annusare, e l’asciugamano bianco con le frange.

Quando arrivava il primo figlio, entrava a far parte dell’arredamento della camera  anche la culla, che poi rimaneva lì per un bel po’ d’anni, visto che ogni due nasceva un bambino.
Ad illuminare il tutto il lampadario, costituito da un piatto ricoperto da un centrino quadrato, ricamato finemente dalla sposa, con una apertura laterale per favorire le operazioni di cambio e pulizia. Questa luce, perlopiù fioca, dava la giusta penombra e conferiva intimità alla stanza, custodita dalla porta che aveva anche una sua funzione supplementare, quella di appendiabiti.

Quante storie da raccontare dietro quella porta, che chiudeva fuori il resto del mondo: l’emozione spesso imbarazzata degli sposi, quasi due sconosciuti, la prima notte di matrimonio, le speranze per i figli, la fatica del vivere quotidiano, la tristezza ed il pianto disperato quando lui partiva per la guerra, la gioia liberatoria per il suo ritorno, il paziente ritorno alla quotidianità… una stanza, mille sentimenti.

Ed era questo il patrimonio segreto della camera degli sposi, una sola, per tutta la vita; potevano cambiare casa, ma la camera rimaneva sempre quella.

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