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Elogio della normalità

Scorrendo gli articoli del giornale, mi sono imbattuta per ben due volte nell’aggettivo “epocale”, anche se usato con accezioni e sfumature diverse: una volta in senso letterale, come sinonimo di “periodico”, un’altra in quello di “eccezionale” anche se con un’intensa connotazione ironica, ma tant’è il vocabolo, nella sua pregnanza e nella sua frequenza mi ha spinto ad alcune riflessioni.

Mi sono resa conto innanzitutto che il termine è molto di moda ed è usato frequentemente nel linguaggio giornalistico e nel politichese per indicare avvenimenti, provvedimenti e riforme presentate come capaci di segnare un’epoca appunto, naturalmente migliorandola.
Ed è proprio questo esclusivo significato positivo, attribuito al succitato aggettivo che suscita un moto di diffidenza e sollecita la mia analisi; continuando quindi nel mio esame della parola da un punto di vista lessicale e connotativo, osservo, ripetendomi che esso può essere correttamente sostituito da “eccezionale”, “straordinario” ed allora la sottolineatura enfatica, celebrativa appare ancora più evidente.

Ad “epocale” poi io associo istintivamente il sostantivo “evento” che mi porta, dritto dritto, al mondo dello spettacolo, di cui è diventato, nel linguaggio comune, sinonimo, ed allora il cerchio è chiuso.
Considerando che il linguaggio è lo specchio di una determinata società in un determinato momento storico, non riesco a sottrarmi al pensiero di una spettacolarizzazione della vita pubblica, sociale e politica con tutte le implicazioni negative o discutibili che questo comporta ed allora ho l’impressione di trovarmi immersa in una comunità separata, in cui ci sono da una parte cittadini-spettatori e dall’altra politici-attori.

A questo punto penso che mi piacerebbe tanto che l’aggettivo in questione venisse usato con meno enfasi compiacente, o venisse sottaciuto, o meglio sostituito, anche implicitamente, da “normale”, termine meno ridondante certo, dal significato forse non del tutto univoco, ma più aperto a valutazioni ed interpretazioni e che fa pensare ad una società in cui leggi e riforme rispondono a bisogni reali dei cittadini che non sentono la necessità di essere stupiti con “effetti speciali”.

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Il Muro (di Berlino…) 1989-2009

Attenti, perché a quel muro tutti noi eravamo aggrappati. Con questo ammonimento Giulio Andreotti smorzò il giustificato entusiasmo che contagiò il mondo occidentale nei giorni che seguirono la caduta del muro di Berlino. Il coro dei media, dei politici, degli intellettuali non perdevano l’occasione per cantare le magnifiche sorti e progressive del mondo ora liberato dall’incubo rappresentato dal comunismo. Fine della tensione internazionale, della minaccia nucleare, la pace duratura come orizzonte, apertura dei mercati, opportunità di ricchezza e occupazione per tutti, insomma: un futuro più roseo di ogni ottimistica previsione sino ad allora propagandata.

Ma quel muro materializzava l’equilibrio precario del mondo. Ad esso erano aggrappati la Casa Bianca e il Cremlino, la CIA e il KGB, i paesi satelliti aggregati nel Patto Atlantico e nel Patto di Varsavia, israeliani e palestinesi, gli sceicchi arabi, i dittatori sudamericani, i guerriglieri, i paesi non allineati. Le tensioni fra questi soggetti restavano in qualche modo confinate in territori limitati. Appena tentavano di sconfinare si alzava il sipario della liturgia costituita da immagini terrorizzanti quali missili nucleari pronti al lancio, sommergibili e cacciatorpedinieri in movimento, aerei con ordigni nucleari pronti al decollo. Sullo sfondo conflitti terribili ma locali dove le superpotenze si misuravano, a vicenda, dalle opposte fazioni: Vietnam, Afghanistan, Cuba, Medio Oriente. Nel frattempo, in Estremo Oriente crescevano le tigri finanziarie e tecnologiche pronte ad occupare, nel giro di qualche anno, il vuoto lasciato dal muro. L’Africa, come al solito, interessava, e interessa, solo come lucroso mercato delle armi necessarie alle guerre tribali o come contenitore di materie prime.

Sbriciolato il muro, l’equilibrio subì la medesima sorte e come prevedibile si stratificò in livelli. Per quelli determinati dal denaro, l’equilibrio si ristabilì in tempi ragionevoli dato l’esiguo numero dei soggetti coinvolti e perlopiù appartenenti alle oligarchie preesistenti la caduta del muro. Per quelli, più numerosi, determinati dalla domanda di indipendenza di popolazioni sino ad allora prevaricate anche nella sfera privata, l’equilibrio non si ristabilì. La circostanza offrì alla politica l’occasione per mostrare il suo volto peggiore. Avventurieri dei primi anni novanta cavalcarono con criminale superficialità i destrieri dell’autonomia e del rancore materializzando, a livello sociale, i fantasmi mai sopiti della paura del diverso oltre a presunti torti “storici” subiti da etnie fino ad allora pacificamente conviventi.

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Agli elettori mancini!

Consigli utili: come sopravvivere a B&B

(Riportiamo alcuni suggerimenti sintetici del giornalista Roberto Cotroneo ai delusi del 15 aprile da qui fino al 2013.)

  1. Evitare le trasmissioni televisive politiche.
  2. Darsi un’anima internazionale evitando con cura le prime tre pagine di qualsiasi quotidiano e i primi 15 minuti dei telegiornali.
  3. Pensare il meno possibile.
  4. Evitare le vacanze in luoghi amministrati dal centro sinistra e dal centro destra; meglio starsene a casa.
  5. Molta natura: la natura funziona sempre, e soprattutto non l’ha inventata Berlusconi.
  6. Evitare le passeggiate per la pianura padana, lungo il Po e la Costa Smeralda.
  7. Trovarsi un hobby o uno sport non attinente con la cronaca politica. Per chi non riesce a fare a meno di pensarci a B&B, potrebbero andar bene gli scacchi, la dama o i videogiochi.
  8. Allontanarsi il più possibile dalla contemporaneità. Non leggere saggi sull’Italia di oggi. Darsi alla letteratura. Imparare a ballare; per i balli di coppia scegliere partners che non siano di sinistra.
  9. Iscriversi a una stagione di concerti rigorosamente di musica classica; meglio la musica barocca che ti fa illudere di vivere in un Paese migliore.
  10. Per chi è single, trovarsi un fidanzato o una fidanzata, meglio stranieri, perché non pensano troppo a Berlusconi e non sanno chi siano Bossi o Maroni.
  11. Niente cultura. Leggere libri certo.  Meglio non frequentare presentazioni di testi impegnati, cineforum, teatro sperimentale. Finisce che ti senti di nicchia.
  12. Attendere con pazienza; non c’è altra possibilità. Ascoltare la radio di notte. E’ raro che a quell’ora telefoni Berlusconi. Provare a sorridere, nonostante tutto.

da “l’Unità” del 16 aprile 2008

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(Riportiamo alcuni suggerimenti sintetici del giornalista Roberto Cotroneo ai delusi del 15 Aprile da qui fino al 2013.)

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Di muri e viaggi

Avevo deciso, già da un po’ di tempo, che in questo spazio avrei parlato di muri, metaforici naturalmente, da abbattere per cercare di leggere ed interpretare, fuori da schematismi, in modo più aperto e libero tutto ciò che  ci accade attorno. A questo punto, il pensiero va immediatamente, per analogia, al muro di Berlino la cui caduta, nel 1989, ha inaugurato una stagione di speranze di rinnovamento che non sono però durate molto, perché dinanzi alla complessità della nuova realtà che si è andata delineando, non più divisibile nettamente in due, molti hanno trovato più comodo erigere nuove barriere, mentali questa volta, piuttosto che tentare di adottare nuovi metri di giudizio. Mentre riflettevo su questo aspetto e cercavo di elaborarlo in modo più compiuto, mi sono imbattuta in un’altra parola, altamente evocativa, viaggio, ed ho pensato che i due termini, apparentemente antitetici, potevano servire ottimamente a sviluppare un ragionamento, che poteva diventare programmatico per la nostra associazione e per tutte le altre consimili, che si definiscono culturali. Una volta abbattuti i muri, bisogna, ho pensato, intraprendere un viaggio, metaforico anche questo naturalmente, dentro di sé e fuori di sé, alla ricerca di motivazioni e significati autentici e nuovi che ci aiutino a comprendere una realtà che cambia velocissimamente e che pone problemi ed interrogativi mai incontrati prima. In questa prospettiva muro-viaggio non esistono più argomenti tabù, che non possono essere affrontati e discussi e, se non ci sono più comode e facili certezze, c’è una ricchezza di opinioni e punti di vista stimolanti e vitali.
Certamente questo, che ho delineato, è un percorso faticoso ma necessario, da tener presente se si vuole uscire dall’impasse in cui spesso ci si imbatte nell’analizzare i fenomeni contradditori e complessi di questa nostra epoca. Per concludere, questa nostra riflessione vuole diventare, in questo momento dell’anno aperto ai programmi e ai propositi, un augurio e un pungolo per tutti, noi compresi.

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La rubrica dei “perché”, marzo 2006

La piazza è notoriamente un luogo sociale d’incontri e relazioni che coinvolge l’intera comunità di un paese; essa perciò dovrebbe rispondere alle esigenze e alle richieste dei suoi abitanti.

  • Perché il progetto di riqualificazione della piazza Egidio Dal Ben di Gruaro non è stato presentato e discusso con la cittadinanza?
  • Perché non si è tenuto conto della viabilità, in tutta sicurezza, di pedoni e ciclisti?
  • Perché i bordi della piazza, lungo la strada provinciale, sono pericolosamente alti?
  • Perché il passaggio pedonale in via Roma (angolo casa Toneatti) è situato una posizione pericolosa e finisce su un gradino che costituisce una barriera per i diversamente abili e per le persone anziane?
  • Perché l’accesso al parcheggio è posto nelle vicinanze di una curva?
  • Perché i punti luce, nella stessa piazza sono cosi numerosi in tempi di crisi energetica?
  • Perché rispetto il problema dell’influenza aviaria da virus H5N1, l’amministrazione comunale non ha prodotto l’ordinanza riguardante anche i grandi allevamenti esistenti nel nostro Comune? Quali gli interventi? Quali i controlli?
  • Perché non si porta a conoscenza dei cittadini la situazione e riscontri eventualmente effettuati?

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Disabili – Una testimonianza

Parlare di persone “diversamente abili”… bella sfida… che posso dire?
Forse potrei partire dicendo che lo siamo tutti, in quanto ciascuno di noi ha delle abilità differenti (io per esempio sono bravo a fare la pizza, a quanto dicono…), delle qualità, delle doti, delle caratteristiche che lo rendono unico e insostituibile, assolutamente originale.
Tuttavia non mi sento così capace di “filosofeggiare” su questi concetti…

E allora mi conviene partire dalla mia esperienza personale a contatto con queste persone e cercare di raccontare quello che ho visto e sentito.
Vediamo un po’ …. Potrei chiedere a chi legge di fare così: chiudete gli occhi e pensate a cosa vi viene in mente se vi dico la parola “disabile” o “handicappato” o “ritardato” o “matto” (che fra l’altro sono tutte paroline scherzose e per nulla pesanti o offensive…, ma che appartengono al linguaggio comune…). Fatto? Bene.

È’ probabile che vi siano venute in mente immagini di persone sedute in carrozzina che si spingono con le mani… o che sbavano e vi guardano fisse… o che sono tutte deformi, con le mani, le braccia, le gambe, i piedi storti e contorti come rami di alberi… o persone che camminano avanti ed indietro in una stanza affermando ad alta voce di essere Napoleone… o persone che non parlano… o non vedono… o non sentono… insomma persone che quando le incontri per strada, spesso si fa finta di non vederle e ti fanno cambiare direzione mentre cammini… oppure li si fissa con curiosità morbosa.

Ebbene… a questo punto abbiamo solo due scelte: o ammettiamo che questo variegato campionario di umanità esista, con tutte le conseguenze e le responsabilità che questo comporta, oppure le mettiamo alla porta e ne ignoriamo l’esistenza o cerchiamo di sopprimerle rapidamente…
Ma in ogni caso il problema è nostro, perché stare a contatto con queste persone ci fa toccare con mano le nostre fragilità e debolezze e le nostre difficoltà nel riconoscere l’altro come diverso da me, ma allo stesso tempo uguale a me…

Francamente, dopo quasi dieci anni di volontariato, mi sento di dire, a coloro che fanno la seconda scelta, che non sanno cosa si perdono…
Sapete, la cosa più sorprendente e forse anche banale da dire è che da questo colorato pezzo di umanità io ho ricevuto molti più “doni” di quanti non ne abbia dati a loro. E sono in grado di ricordare tutte le persone, le situazioni, le esperienze nelle quali ho potuto ricevere tutto ciò.

Vi faccio degli esempi di questi “regali”: ho imparato ad essere Paziente. Delicato. Rispettoso. Attento. Sorridente. Allegro. Ad accarezzare e coccolare. Ad ascoltare. A stupirmi delle piccole cose. A giocare. Ad essere Spontaneo… Insomma un sacco di cose… che mi hanno sicuramente reso migliore di quello che ero…
Ho sperimentato – con mia grande meraviglia e stupore –  cosa può voler dire essere amici di qualcuno, sentire che l’altro ti accoglie per quello che sei, che non pretende niente da te se non quello che tu gli vuoi dare, che ti accoglie sempre e che non ti giudica, che esprime le sue emozioni in modo spontaneo e invita te a fare altrettanto…

Quindi quando mi capita di andare per strada spingendo una persona in carrozzina e di incontrare la classica signora di mezz’età che ci ferma e dice “che bravo che te sì…”, dentro di me penso sempre che questo significhi “che bravo che sei tu – seduto su quella carrozzina –  che permetti a questo essere umano che ti spinge di avere l’onore di relazionarsi con una persona speciale come te”.

Se a chi legge, potranno sembrare retoriche o “buoniste” queste mie parole… non importa… il mio intento non è di far cambiare idea o convincere nessuno… ma esprimere ciò che per me è importante e prezioso…
Poi se – per caso – qualcuno leggendo fosse interessato a saperne di più o fosse incuriosito… andate a vedere questo sito internet: www.arca93.it ; è il sito dell’associazione di volontariato di cui faccio parte…

Ecco, ho fatto pure un po’ di pubblicità…
Ringrazio l’Associazione “La Ruota” per lo spazio concessomi…

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A proposito di “Cultura”…

Molte volte mi è capitato di trovare la parola cultura in diverse situazioni e in diversi campi, però non mi ero mai fermata a pensare a che significato questo concetto avesse, fino a quando non ho iniziato a scrivere quest’articolo.
Definire che cos’è la cultura non è sicuramente facile perché questo è un termine molto complesso.
Partendo dal presupposto che la parola “cultura” può essere utilizzata in molti ambiti, per comprenderne il significato, secondo me, bisogna capire che cosa accomuna tutti gli aspetti di questo termine.
Quello che li unisce è a mio parere il concetto di conoscenza, poiché la cultura è l’insieme di conoscenze di una persona in vari campi, ma anche la capacità di capire che il proprio sapere non è infinito, ma va sempre e continuamente incrementato.
Questo fa sì che nel significato di cultura sia compreso anche il concetto di progresso, di evoluzione, poiché nessuno dovrebbe mai rimanere ancorato alle proprie idee senza mai metterle in discussione.
Facendo un ulteriore passo avanti si comprende come nella parola cultura è insita certamente l’idea di confronto.
Ogni idea, infatti, anche se lontana dal nostro pensiero, può essere utile a far capire un aspetto di una questione che prima non si era preso in considerazione.
Tutti, per questo motivo, possono fare cultura, solamente discutendo riguardo ad un dato argomento.
La cultura non deve essere vista, infatti, come un qualcosa di astratto ma anzi deve essere percepita come vicina a noi, perché è da ogni singola persona che deve partire la volontà di ampliare il proprio sapere.
Siamo inoltre sempre noi stessi che dobbiamo mettere a disposizione le nostre conoscenze, le nostre idee, i nostri pensieri, perché la cultura non è solo un patrimonio personale, ma deve essere condivisa con gli altri.
Ciò che un’associazione culturale, come la Ruota, deve fare è, quindi, a mio parere, aumentare la nostra conoscenza e promuovere lo scambio d’opinioni e la riflessione, in sostanza mantenere viva la cultura.

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Voci dall’associazione…

Anno nuovo, nuovi sviluppi e molte possibilità per “La Ruota”.
Un punto nodale per lo svolgimento delle attività della nostra Associazione è rappresentato dal recepimento delle proposte di programmazione sin qui avanzate dal pubblico partecipante (e non) alle iniziative precedenti. Ci pare pertanto interessante pubblicare i risultati “preliminari” dello spoglio dei questionari fin qui ricevuti (Novembre – Dicembre 2004).
E’ necessario precisare come in tale ottica il discorso non si esaurisca qui: proporremo ancora questionari o inviteremo in altri modi il “pubblico” ad esprimersi nel merito delle attività che svolgiamo. Un buon “feedback”, tanto più se critico, unito alla fiducia dei propri sostenitori sono elementi imprescindibili, non per piaggeria, ma per autentico desiderio culturale e stimolo ad un continuo miglioramento.
Anche per questo evitiamo di addentrarci dettagliatamente in un’analisi dei risultati (es. “Cineforum” e “Linguaggio cinematografico” si trovano rispettivamente al primo ed ultimo posto delle preferenze, il che stimola una riflessione sulla chiarezza del questionario), ma risulta evidente che se le prime 4 voci da sole rappresentano il 30% del totale è ad esse che più volgeranno i nostri sforzi, almeno in questa fase. La serata sui pannelli solari si inserisce pertanto in tale impostazione di risposta e scambio continuo.
Speriamo che quella del 18 Febbraio funga da incipit ad un ciclo più ampio sull’energia e le fonti rinnovabili, tema che merita più di un approfondimento, anche se, chiaramente, a seconda delle possibilità e occasioni che ci si presentino, potremmo scostarci dalle linee-guida rappresentate nel grafico (un esempio è la già prevista serata del 25 Febbraio su Banca Etica, di cui tratteremo in dettaglio nel prossimo bollettino). Stay tuned.

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“La lezione di nonna Argelide”

da “L’Unità” del 10 Febbraio 2005

«La cultura la fà cascà la dittatura». Una frase che mi è rimasta ferma nel cervello fin dalla mia prima infanzia. La diceva nonna Argelide, contadina socialista, abitava a Volongo, provincia di Cremona, un paese dalle stesse parti di Sesto e Uniti dove è nato Sergio Cofferati. Erano gli anni neri della guerra: 1943, 1944, 1945. A Milano i bombardamenti, mio padre alla guerra in Russia, mia madre operaia della Innocenti ed io, bambina, sfollata a casa della nonna. Libera dalla scuola elementare mi divertivo un mondo a fare la guardiana delle oche che menavo al pascolo fino sulle rive del Po. Non avevo assolutamente voglia di studiare quello che si può apprendere alla scuola elementare, e quella socialista di mia nonna, con riferimento ben preciso alla dittatura agonizzante, mi rimproverava con quella frase salutare: «La cultura la fà cascà la dittatura». Sono passati tanti anni da quando sentivo con frequenza quella frase che allora mi sembrava strana ed esprimeva cose che nell’infanzia non capivo bene. Poi, anno dopo anno, considerando gli eventi, ho capito il profondo significato della frase della nonna: è stato tante volte così, i dittatori sono stati sempre nemici della cultura, della libertà di cultura, ma c’è da dire che la resistenza della cultura ha fatto sempre, seppur con infiniti sacrifici, anche i più estremi fino al martirio, finire le dittature. Tutto il Novecento insegna così. Ora nel nostro Paese si attua un progetto inquietante: tagliare – che brutto verbo, sa di ghigliottina – i fondi statali alla cultura è, a mio modesto avviso, la cosa più insana che un governo eletto democraticamente possa fare, a meno che la parola democrazia possa essere interpretata in modo totalmente distorto.Cultura vuole dire tante cose: non solo libri, non solo volumi e volumi scritti, non solo tele e tele dipinte, non solo sculture, non solo danze; cultura vuol dire anche come sapere bene coltivare i campi, come sapere tenere bene l’acqua pulita nei fiumi, come sapere parlare ai giovanissimi perché sappiano distinguere tra le cose, perché sappiano distinguere tra chi sa fare bene e che non lo sa fare, cultura vuole dire rispetto dell’ambiente, rispetto dei giovani, rispetto dei vecchi, cultura vuole dire soprattutto un impegno serio per il futuro dei giovani che sono i più bisognosi di cultura.

Io mi appello al governo del nostro Paese, governo eletto democraticamente, perché rifletta su quello che qualsiasi italiano di buona volontà ha il diritto di ricevere; mi appello perché il Governo abbia un ripensamento e trovi la maniera di non togliere alla cultura i mezzi pubblici per sopravvivere: è la necessità fondamentale per la vita morale del nostro Paese. E vorrei che un riguardo particolare venisse rivolto al futuro delle giovani generazioni, le più bisognose di certezze per trasformare i sogni in qualcosa di vero.

Carla Fracci

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A proposito di “Cultura”…

Io penso che la cultura sia un grande tesoro, una enorme fortuna che tutti noi abbiamo a disposizione. È come avere un deposito dell’insieme dei concetti, codificati in molti modi, che ci danno la possibilità di interagire con efficacia, in maniera innovativa, utilmente, con gli eventi esterni ed interni a noi stessi. I modi con cui questi concetti sono codificati dalla cultura sono molto vari: da forme più logiche ad altre più intuitive, una gamma di modalità che va dall’arte figurativa alla musica, dalle lettere alla scienza. Questi concetti ci permettono di ottenere dei risultati anche pratici diversi o migliori a parità di impegno profuso. Effettivamente io intendo la cultura come condivisione della conoscenza, che porta ad ulteriori approfondimenti in chi entra in contatto con essa: è la possibilità di fare luce in situazioni altrimenti oscure, di trovare un percorso senza la necessità di procedere a tentoni; mette in condizione di “partire tutti dalla stessa posizione”, di avere, potenzialmente, le stesse possibilità nel percorso della vita.
Giudico invece negativo l’uso dei concetti e delle conoscenze, e la loro diffusione, in modo “fondamentalista”, ovvero quando il sistema di conoscenze è proposto, o addirittura imposto, come l’unica verità, senza possibilità di dibattito e verifica, ed ogni altro punto di vista è bollato come “falso”. La cultura deve servire ad aprirci gli occhi, ad estendere i nostri punti di vista, non a renderci più ciechi!
Sono quindi convinto che sia bene che ognuno di noi si sforzi di diffondere le sue e le altrui idee, per contribuire al percorso che egli stesso ha intrapreso e, data l’interdipendenza che io vedo tra tutti noi, degli altri.
A questo proposito propongo un’ultima riflessione sulla resistenza alla diffusione di idee per il timore di perderne “l’esclusiva”. Io penso che ci si possa tranquillizzare per il fatto che le idee sono sempre collegate anche alle persone e al loro modo di diffonderle e di metterle in pratica, cosa che ognuno fa in modo personale, con la sua impronta unica: questa nostra unicità ci garantisce dalla perdita. È altresì vero che la condivisione delle idee sottintende una certa disponibilità a rivederle e modificarle con il contributo di quelli a cui le diffondiamo, e mal si adatta a situazioni statiche, a persone che vogliono mantenere posizioni acquisite in modo rigido. Ma quest’ultimo atteggiamento, seppure spontaneo e fonte di apparente sicurezza, non è “vincente” a lungo termine: l’esterno e l’interno di noi stessi non è statico, e allora è più realistico ed utile considerare il cambiamento come un aspetto da assecondare, a cui essere almeno in parte disposti, piuttosto che, ciecamente, come un elemento da contrastare.

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