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Sviluppo e tradizione: un fragile equilibrio

Da alcuni anni lavoro per Medici Senza Frontiere, combinando la mia professione col desiderio e il piacere di vivere in paesi ogni volta diversi e la possibilità di osservare e a volte condividere la vita delle comunità che vi abitano. Lavorando in “coordinazione”, il gruppo di persone che coordinano tutti i progetti di un determinato paese, risiedo in capitale ma faccio visite frequenti ai progetti che invece si possono trovare in zone remote.

È un dato di fatto che la diffusione dei beni di consumo in tutte le grosse città in cui ho abitato è capillare e oramai omologata, nel senso che le multinazionali distribuiscono gli stessi prodotti ovunque nel mondo. Mi viene così da pensare che desideriamo tutti le stesse cose, e analizzando i desideri da un punto di vista consumistico, i desideri di un consumatore dei paesi sviluppati non sembrano differire molto da quelli dei paesi in via di sviluppo. Ma in alcune rare occasioni questa idea è stata smentita.

Lo scorso anno mi trovavo in Cambogia, e durante una pausa dal lavoro ho fatto un viaggio nel Ratanakiri, una provincia nord-orientale, poco interessata dal circuito turistico, dove, al confine con Vietnam e Laos, si trovano i villaggi dei Degar (letteralmente “figli delle montagne”). Sotto questo nome si uniscono circa quaranta gruppi etnici tra i quali i Tompuon e i Jarai sono i più noti in Cambogia. I Degar sono gli originali abitanti del sud dell’Indocina che si ritirarono gradualmente nelle zone montagnose del Vietnam, Cambogia e Laos in seguito all’espansione di popolazioni più numerose e forti come i Vietnamiti. I villaggi più vicini a Ban Lung, il capoluogo della provincia del Ratanakiri, hanno una popolazione prevalentemente Khmer, come la maggior parte della Cambogia, ma nelle zone più remote, raggiunte da strade sterrate che divengono impraticabili durante la stagione delle piogge e sono percorse a piedi o da qualche raro motorino durante la stagione secca, si trovano villaggi abitati esclusivamente dai Degar.

Questi villaggi, pur essendo raggiungibili in un giorno di cammino, vengono solo sfiorati dalla modernità. A parte gli abiti, pantaloni gonne e magliette al posto di quelli tradizionali, viene conservato uno stile di vita antico. I Tompuon tramandano ancora le loro conoscenze oralmente, sono sprovvisti di un alfabeto scritto, non hanno libri e non hanno scuole. La sopravvivenza della loro peculiarità è affidata ad una tradizione che privilegia l’isolamento.

Mi sono chiesto che cosa possa desiderare un Degar, se i suoi desideri si limitino alle cose che lo circondano, appartenenti alla sua quotidianità, oppure si estendano ai pochi oggetti che arrivano dalla città. Nei villaggi in cui sono passato o mi sono fermato a pernottare mi è sembrato che l’indifferenza alla fine vincesse sulla curiosità iniziale, ed io con tutti i miei gadgets dopo poche ore non costituivo più un evento che potesse turbare gli abitanti. Un atteggiamento così maturo fa sperare che il giorno in cui l’isolamento verrà rotto da una striscia d’asfalto poggiata su quei sentieri, che percorrono una foresta che già mostra segni evidenti di disboscamento, i Degar saranno pronti a fare i conti con la modernità, e forse riusciranno a non farsi travolgere dallo sviluppo più becero e consumistico e a mantenere viva la loro diversità.

Ma un pericolo più subdolo della modernizzazione mina l’integrità delle tradizioni di queste popolazioni, il rischio di un’omologazione culturale che equivarrebbe all’estinzione. Pur essendo il buddismo il credo prevalente in Cambogia e nei paesi confinanti, i Degar per tradizione sono animisti, credono cioè che tutte le cose sono animate da spiriti, benefici o maligni, superiori all’uomo, e ogni gruppo etnico ha dei rituali che lo contraddistinguono. Quelli funebri dei Tompuon sono alquanto originali. Ogni villaggio Tompuon ha un cimitero nascosto nella foresta, a volte molto distante. I morti vengono sepolti e sopra la sepoltura viene costruito un manufatto in legno con una o più sculture sempre in legno. Le sculture generalmente raffigurano il defunto, ma possono anche rappresentare un entità in cui reincarnarsi.