Uno di Noi Archivi

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Quando un hobby diventa un lavoro

Non capita molto spesso di parlare di qualcuno che è riuscito a fare di un suo hobby un lavoro, ma questo è il caso di Daniela Zerbini, nostra concittadina, che ha dato vita, più di trent’anni fa, a Portogruaro, ad una attività commerciale ed artigianale insieme, “Tricot filati”, sfruttando una sua passione, quella del lavoro a maglia, che ha coltivato fin da bambina.

Questa suo interesse viene da lontano, si delinea e sviluppa all’interno della famiglia, dove la madre, valente sarta, incoraggia Daniela e Patrizia, l’altra figlia, a fare, a creare con le proprie mani. E’ naturale che le due sorelle, forti dell’esempio materno, si indirizzino dapprima verso il cucito e realizzino, come del resto molte loro coetanee, i vestitini per le bambole, anche se a differenza di quest’ultime, non si limitano a singoli pezzi, ma creano intere collezioni che poi mostrano, o meglio “presentano” alle loro amiche in estemporanee sfilate, lasciandole a bocca aperta.
Anche il padre, ricorda Daniela, pur svolgendo un lavoro impiegatizio, coltivava una vera e propria passione per il disegno e la pittura ed era, a suo dire, molto creativo e costituiva un modello di riferimento.

Daniela rievoca con particolare piacere questi momenti della sua infanzia e della sua educazione, affidata, dopo la scomparsa prematura del padre, completamente alla madre che incoraggiava il fare delle figlie e che adottava un metodo, a suo avviso molto efficace per sollecitare la loro curiosità e far emergere nuovi interessi che partivano sì dal cucito, ma spaziavano in molti campi, dalla maglia, all’uncinetto in primis, alla realizzazione di piccoli oggetti per la casa: lei si limitava a dare i primi rudimenti, poi diceva che il resto veniva da sé, che bisognava un po’arrangiarsi, “rubare con gli occhi”, provare insomma, incoraggiando così l’intraprendenza.
E questo è l’insegnamento che Daniela non ha più dimenticato e che ha applicato quando, conseguita la maturità all’Istituto tecnico commerciale, quasi casualmente una cliente della madre, vedendola alle prese con una liseuse ed ammirandone la perizia esecutiva e l’originalità, le commissiona una giacca; Daniela accetta con entusiasmo, si mette all’opera e realizza, lo ricorda ancora nitidamente, un golf bianco lavorato a onde. Da quel momento non si è più fermata: in seguito, assieme alla sorella, ha acquistato una macchina da maglieria ed ha aperto il negozio di filati, già citato, a Portogruaro.

Era l’84; la collaborazione con la sorella è durata 8 anni, poi Daniela ha continuato da sola. Ancora oggi lei si dice contenta della sua scelta e proprio la convinzione di aver fatto la cosa giusta, più adatta per lei, le ha fatto superare le difficoltà che si sono inevitabilmente presentate, ed affrontare con entusiasmo un ritmo di lavoro a volte massacrante. Le motivazioni che trova poi nella sua attività sono profonde per cui ci tiene a ribadire che il lavorare a maglia non è solo legato al fattore moda, ma rientra e si ricollega ad una cultura del fare, che si è evoluta nel tempo di pari passo con la storia dell’uomo ed è passata dalla realizzazione di capi di semplice fattura, con la funzione primaria di coprire, ad altri più elaborati, basati su punti sempre più preziosi, per approdare recentemente ad una ricerca e sperimentazione su materiali nuovi o sulla rielaborazione e riscoperta di quelli antichi.
E’ proprio questa convinzione che il suo lavoro attenga ad un fatto culturale e rientri in un certo modo di vedere, pensare il mondo ed agire, che spinge Daniela a trasmettere questo suo sapere a quante più persone possibile, organizzando corsi personalizzati, dove ciascuno può trovare le risposte a sue necessità, o in maniera più informale e gratuita, aiutando le clienti ad eseguire i vari capi e a superare le difficoltà tecniche.
Rimanendo in questo ambito, Daniela ha un suo sogno o progetto: organizzare dei corsi di maglia all’interno delle scuole, in modo che un patrimonio di abilità e sapienza antiche non vada disperso e dimenticato.

Ciò che colpisce poi, guardando i capi realizzati, tutti capi unici peraltro, oltre che l’abilità e la precisione tecniche messe in campo è anche e soprattutto la creatività, a tratti stupefacente, e che fa pensare ad un prodotto artistico oltre che artigianale.
Questo gusto per la decorazione, il colore, l’accostamento di materiali diversi, le soluzioni originali, lei li esprime anche nell’allestimento delle vetrine per le quali ha ricevuto vari riconoscimenti: in particolare 2 premi a Portogruaro e 2 a Pordenone, tra cui un I° premio sul tema dell’estate. Concludendo il nostro incontro, Daniela ricorda che il criterio che la guida nel suo lavoro, e nel suo rapporto con le clienti, oltre all’immancabile entusiasmo, non è tanto l’adesione acritica e pedissequa alla moda del momento, quanto lo sforzo  di avvicinarsi il più possibile alla personalità del soggetto che ha davanti, di rispondere alle sue esigenze profonde, il che la porta il più delle volte a rielaborare in chiave personale quanto dettato dagli stilisti. A questo punto non resta che visitare di persona il negozio – atelier “Tricot filati”, situato in via Garibaldi n.31 a Portogruaro, allo scopo di verificare “de visu” quanto letto; penso che non resterete delusi.
Buona fortuna, Daniela.

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Alla fine di un lungo viaggio… c’è sempre un viaggio da ricominciare

Che prima o poi mi sarei occupata in qualche modo di politica l’ho sempre saputo.

Per me politica significa vivere la vita cercando un significato, non lasciarsi sorprendere dagli eventi e soprattutto legarli ad un contesto, non accontentarsi del detto o scritto ma andare alle radici dell’informazione, non considerarsi come unico essere vivente del globo ma un insieme, dove la partecipazione attiva permette la crescita e a volte anche la sopravvivenza.

Sono diventata coordinatrice del Partito Democratico di Gruaro e ho trovato un gruppo di persone che mi hanno insegnato tanto, mi hanno incoraggiato e sostenuto, fino a propormi il ruolo di candidato sindaco. Persone che hanno lavorato per la comunità presenziando senza mai un’assenza ai consigli comunali, persone che hanno dato la loro esperienza per farmi crescere senza mai guardare al passato. Ringrazio tre persone per tutti. Sante, la memoria storica di Gruaro, preparatissimo amministratore, mi ha sostenuto e tuttora mi sostiene nel duro ruolo dell’opposizione. Gino, mi ha insegnato la necessità della resistenza, mi ha raccontato delle eterne e fumose riunioni, quelle dove si vinceva per lo sfinimento della controparte, a lui alla sua cultura e al suo “mondo schifoso” devo molto. E, infine, ma non per importanza, Luisella, una combattente, una donna che vive la politica con passione e lealtà.

Il periodo delle elezioni è stato intenso, totalizzante. Fatto di tante riunioni con la mia lista, di tentate alleanze e di presenze a manifestazioni con gli altri candidati sindaci dei Paesi vicini.
Ma soprattutto è stato un periodo dedicato all’incontro di più di 100 famiglie, un mese di conoscenza dei miei concittadini, senza pensare alle appartenze, con la convinzione che il comune non si amministra con i partiti ma con le persone.
Mi sono trovata a parlare di anziani e dei loro bisogni, sotto ad un albero di tiglio bevendo un bicchiere di vino, ascoltando ricordi di una Gruaro diversa, con altri ritmi e priorità.

Ho parlato con i giovani, incuriositi dalla mia idea di politica giovane e non per i giovani, spesso scontrandomi con idee in cui non mi riconoscevo, ma mai con le loro speranze. Ho incontrato giovani coppie, ho ascoltato le loro difficoltà, le loro preoccupazioni, riconoscendomi nelle loro parole. Ho parlato con donne e uomini straordinari, che non hanno perso la speranza e la fiducia nel futuro, nonostante la vita li abbia messi davanti a sfide difficile e dolorose. Uomini che gestiscono attività diverse, accomunati dallo stesso sentimento di paura per il rischio di un declino economico, ma che fanno di tutto per mantenere i posti di lavoro ai loro operai. Due sole le porte chiuse in faccia, ma che mi hanno dato ancora più energia dei tanti caffè offerti dalla famiglie che ho incontrato.

Ho conosciuto meglio il mio territorio, la gente del mio territorio.
So cosa si aspetta chi mi ha votato e non tradirò la loro fiducia. L’opposizione consiliare, che intendo portare avanti sarà puntuale nella critica, costruttiva, stimolante e propositiva, collaborando con la maggioranza affinché amministri meglio e nell’interesse di tutto il paese.

Mi aspettano anni di opposizione, un ruolo difficile, dove il mio voto non ha un peso e dove le mie proposte vengono, da alcuni, recepite con sorrisi e indifferenza.
Ma farò in modo che sia un tempo fertile, un tempo in cui si possa parlare di Gruaro e della sua gente; un’occasione, per me, di conoscere e comprendere di più questa terra a cui sono legata e per mettere insieme i futuri amministratori del nostro Comune.

“Alla fine di un lungo viaggio… c’è sempre un viaggio da ricominciare”.

Francesca Battiston, capogruppo “Cittadini di Gruaro”

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Marcello e i “The Professionals”

Anche la storia di Marcello C., come quelle ospitate precedentemente in questa pagina, è la storia di una passione, iniziata lontano nel tempo, quando il nostro protagonista aveva 8 anni, a Catania, e condivisa con il fratello e poi con altre persone, (la nostra sarà sempre infatti una storia al plurale) che ha avuto ed ha tuttora come oggetto la musica, non tanto e solo ascoltata, ma praticata, suonata assieme ad altri.

Marcello racconta che a 8 anni appunto, di nascosto, lui e suo fratello si erano comperati una chitarra, mettendo insieme faticosamente le 6000£ necessarie; tutto all’insaputa dei genitori e in particolare della mamma che, da buona insegnante, considerava la musica una possibile fonte di distrazione. Il segreto rimane tale solo per 2 giorni, e quando la chitarra viene scoperta, viene loro intimato di riportarla indietro, ma per fortuna il negoziante non ne vuole sapere di riprendersela, per cui è giocoforza per la madre accettare la situazione. Incomincia così lo studio, suo e di suo fratello, da autodidatti, dello strumento, mentre all’educazione del loro gusto musicale contribuiscono i fratelli più grandi, che ascoltavano i Platters e poi i Beatles, per citarne solo due.

A 11 anni Marcello e Roberto, il fratello, danno vita, con alcuni coetanei, al loro primo complessino e passano i pomeriggi a provare nel garage di un amico, in un condominio in quel di Catania. Finalmente, per il loro tredicesimo compleanno, il debutto davanti a tutta la famiglia e da quel momento non hanno più smesso, anche se ci sono state delle pause involontarie nell’attività del gruppo, dovute ai trasferimenti della famiglia e a motivi di studio, ma la passione è rimasta, sempre alimentata, coccolata e si è andata definendo meglio finchè nel 1991 è nata la band “The Professionals”, attiva ancora oggi, sostanzialmente sempre con gli stessi componenti, o quasi.

“Profondamente legati alla musica nera degli anni ‘50 e ‘60, e in particolare al blues e al Rhythm’n’Blues, The Professionals riescono ad accattivarsi il pubblico grazie alla riproposta di questo genere musicale trascinante e coinvolgente…” così è scritto nella home page del loro sito ed io sottoscrivo in pieno questo giudizio, perché ho avuto l’opportunità di ascoltarli e li ho trovati capaci e divertenti, ma proporrei all’estensore della presentazione di sostituire accattivare con conquistare che rende maggior giustizia al loro talento esecutivo.

Di Marcello poi, Drum, sempre nel sito ufficiale della band si legge questo breve ritratto “(è) il personaggio più misterioso del gruppo. Grande cultura musicale unita ad una tonica destrezza gli permettono di cimentarsi contemporaneamente alla batteria e alle tastiere. Semplicemente incredibile”. (Dettaglio singolare e simpatico: lo stesso ritratto è utilizzato specularmente anche per il fratello gemello, quasi a sottolineare la loro intercambiabilità). Misterioso Marcello un po’ lo è: lui, normalmemte cordiale ed estroverso nella vita di relazione, diventa più riservato, quasi restio a raccontarsi come musicista, non so se per modestia, o per gelosa custodia di questa sua passione che ritiene più giusto vivere e condividere fattivamente con amici e fans piuttosto che affidarla alle parole. Parla invece con piacere, sottolineandone le qualità professionali, di quanti suonano con lui nella band, come il suo sosia e gli “amici fraterni” Umberto Baggiani, Neck Collini e “Al” Caicco, e di quanti hanno hanno suonato e cantato nel gruppo, come Gigi Todesca, Davide Drusian, Ice Casaro, Monica Roncolato e Valentina Roman, l’ultima cantante in ordine di tempo. In passato ricorda, rispondendo ad una mia domanda, di aver accompagnato, in occasione di “feste di piazza” vari interpreti e suonato con strumentisti noti in Italia e fuori: tra gli altri Juni Russo (quando si chiamava ancora Giusi Romeo), Ninni Rosso, Donatella Moretti, Mino Reitano e Mario Merola.

Il repertorio di The Professionals comprende canzoni quali Midnight hour, Knock on vood, 6345-789, Shot gun blues, Proud Mary, Sweet Chicago, Soul man, tutti brani resi immortali dai grandi del R&B, da Wilson Pickett a Otis Reding, a Sam & Dave e via elencando, eseguiti, dicono gli intenditori “con ottima tecnica strumentale e la più totale padronanza del repertorio”.

La band ha suonato in numerosi locali di tutto il Triveneto, e Marcello cita con particolare piacere, e in questo caso sì con una punta d’orgoglio, il locale “Al vapore” di Mestre, location  prestigiosa dal punto di vista musicale; e qui la loro esibizione è stata accompagnata, ancora una volta, da giudizi positivi e lusinghieri, per i quali vi rimando al sito (www.theprofessionals-band.it).
Nel loro curriculum figurano anche 2 cd ed un dvd.

Le notizie raccolte hanno solleticato ulteriormente la mia e, anche spero, la curiosità dei lettori, per cui non ci resta che auspicare di poter assistere al più presto ad una esibizione de’ “The Professionals” a Gruaro per apprezzare dal vivo quanto letto.

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Il cercatore di alberi… genealogici

Il sogno di molte persone, me compreso, è quello di scoprire le origini della propria famiglia e del proprio cognome.
Una volta la genealogia era tenuta in grande considerazione e veniva usata anche per scopi pratici, come verificare eventuali eredità, combinare i matrimoni più opportuni tra famiglie di pari condizione sociale, reali, nobili, benestanti; ma le ricerche genealogiche si possono fare su tutte le famiglie, aristocratiche e no, perché tutti noi abbiamo una storia e tutti, indistintamente, abbiamo degli ascendenti. È bene infatti tener presente che ognuno di noi ha 2 genitori, 4 nonni, 8 bisnonni, 16 trisavoli e così via; con questa progressione dopo 12 generazioni i nostri avi sarebbero 4096, (questa è la “ricerca per quarti”, la più completa); bisogna ricordare poi che, più si va indietro nel tempo, per l’incrociarsi dei rami genealogici, ognuno dei componenti l’albero è molte volte nostro avo.

La mia passione per le ricerche genealogiche è nata grazie a mia madre che, con i suoi racconti sulle vicende della nostra famiglia, ci ricordava chi eravamo e da dove venivamo. Ma non bastava: ho ancora viva nella mia mente l’immagine di me bambino che, andando con lei a Giai in bicicletta, (lei era di lì) la subissava di domande sui proprietari dei campi che si estendevano ai lati della strada e lei allora mi raccontava, con dovizia di particolari, la storia di quelle persone, ed io ascoltavo incantato e, senza saperlo, immagazzinavo informazioni e mi creavo un mio piccolo archivio.

Una volta cresciuto, la curiosità mi ha spinto a verificare sui documenti l’attendibilità dei racconti ascoltati a partire dall’infanzia ed ho sentito il bisogno di approfondire ulteriormente le mie conoscenze sui miei antenati e, cammin facendo, ho fatto ulteriori scoperte.
Concretamente le mie ricerche sono iniziate nel 1994 quando in famiglia abbiamo avuto bisogno di risalire alla data di nascita del bisnonno e nessuno la ricordava, neanche mia zia Nina, altra fonte inesauribile, dopo mia madre, di notizie.

Ho dovuto così affrontare, esaurito il filone della tradizione orale, pur supportato da tutta la documentazione (fotografie, dati anagrafici, lettere, atti notarili ecc.) presente in ogni famiglia, il problema delle fonti scritte. Eccomi quindi approdare ai registri parrocchiali, a quelli depositati in Curia, agli atti notarili custoditi negli Archivi di Stato, agli atti di stato civile, reperibili in quelli comunali. A proposito dei primi è opportuno ricordare che, in seguito ad una disposizione della Chiesa, adottata dopo il Concilio di Trento (1563), le Parrocchie furono tenute a registrare tutti i battesimi e matrimoni che si celebravano nel loro territorio; in seguito ai già citati, si affiancarono altri due registri, quello dei morti e quello del cosiddetto “Stato delle anime”, censimento vero e proprio, fatto dal sacerdote, che recandosi nelle famiglie per la benedizione pasquale chiedeva appunto quante “anime”, persone, facessero parte del nucleo familiare. Per inciso, ricordo che quest’ultimo registro non c’è a Gruaro e che i primi atti registrati nell’archivio parrocchiale risalgono al 1602. Nel fare queste consultazioni non mancano certo le difficoltà: gli atti hanno una grafia spesso difficile da decifrare e quindi bisogna fare una minuziosa opera di confronto e di controllo, molte parole poi sono scritte in forma abbreviata (forse per risparmiare inchiostro e carta); ci sono poi i casi di omonimia, per cui per identificare con certezza una persona bisogna rintracciare, accanto all’Atto di battesimo anche quello di matrimonio e di morte per poter fare dei controlli incrociati e per evitare di inserire al posto sbagliato un parente omonimo ma non appartenente al filo genealogico desiderato.

Succede poi che uno stesso individuo appaia nei vari atti con variazioni nel cognome (es: Barbui-Barbuio) e non è possibile servirsi, per dirimere la questione, della firma dello stesso, perché questa è stata introdotta nei nostri territori, dall’Austria, solo nel 1815, quando fu dato l’incarico alla Chiesa di tenere, accanto a quello canonico, anche il registro civile; è molto importante poi non trascurare nessuna parola, lettera o segno riportati negli atti, perché possono essere fondamentali per collocare con precisione nel tempo un soggetto.

Nel fare queste ricerche emergono alcune consuetudini ben radicate nella vita della comunità: la maggior parte dei matrimoni ad es. venivano celebrati a novembre, dopo San Martino, che segnava la fine dell’anno agrario e la conseguente chiusura dei conti; in genere gli sposi appartenevano poi allo stesso paese o a paesi limitrofi; si cercava, con l’intervento di un sensale di matrimoni, moglie /marito fuori paese, quando si restava vedovi; non venivano celebrati matrimoni in Avvento e in Quaresima.

Inevitabilmente il mio lavoro, pur imperniato sulla mia famiglia, per le caratteristiche metodologiche sopra illustrate, ha coinvolto altri nuclei familiari per cui, a poco a poco si è dipanata davanti a me una rete di relazioni in cui, a tratti, faceva capolino come fattore condizionante la storia, che, toccando la vita di individui che andavo riconoscendo, assumeva ai miei occhi una concretezza ed una pregnanza mai avvertite prima e mi traghettava alla comprensione del presente; la genealogia, a mio avviso, può avere anche per altri questa funzione e non deve quindi essere guardata come una bizzarria, ma come un ulteriore strumento di conoscenza.

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Giovanni Daneluzzi

Anche in un paese piccolo come il nostro, si possono fare, inaspettatamente, incontri interessanti ed emozionanti, che lasciano sbalorditi, piacevolmente sorpresi; è quanto è accaduto con Giovanni Daneluzzi, classe 1904, nato a Giai, dove visse fino al 1978, noto a tutti con il soprannome di “Stucchi”, in chiaro riferimento alla sua attività di decoratore.

Naturalmente la mia, visto l’anno di nascita del nostro, non è stata una conoscenza diretta, ma mediata dal ricordo delle figlie, dal loro tributo d’affetto che le ha spinte a conservare, nella restaurata casa paterna, le testimonianze tangibili della sua passione di pittore autodidatta e di freschista ancora visibile in alcune stanze. La sua realizzazione più notevole, sotto questo punto di vista, è lo studio che è stato completamente affrescato, pareti e soffitto, con un effetto particolarmente suggestivo e straniante, perché inserito in una struttura peraltro moderna. Le pareti sono suddivise da cornici e da finte paraste in riquadri, decorati con effetto marmo; il soffitto poi ha un grande rosone centrale che racchiude in una struttura architettonica classicheggiante, la figura mitologica di Aracne, tutto intorno elementi decorativi vegetali che terminano in 4 medaglioni, uno dei quali contiene l’autoritratto del pittore, mentre i rimanenti, destinati ai ritratti degli altri componenti della famiglia, sono rimasti vuoti. L’opera risale al 1969, anno dello sbarco dell’uomo sulla luna.

Altri affreschi sono visibili sul soffitto di un bagno (qui la visione, non senza una punta d’ironia, a mio avviso, è celestiale) e di una stanza da letto.
Due suoi affreschi, rappresentanti Santa Dorotea e Agnese, si trovano poi nella cappella di Villa Ronzani a Giai. Alle pareti inoltre, moltissimi quadri dipinti nel corso della sua vita, tra cui spicca un autoritratto del 1930.
La pittura e la lettura furono le sue grandi passioni, coltivate sempre, ma con maggiore assiduità quando, con l’età, il suo lavoro di decoratore prima e di imbianchino poi (i tempi ed i gusti erano cambiati dopo la guerra!) non lo impegnava più; ma anche quando era ancora attivo, approfittava dei periodi di riposo forzato, dovuto all’inclemenza del tempo, per dipingere.

Iniziò a lavorare molto giovane in quel di Trieste e Venezia e fu impegnato nel restauro di palazzi, in cui venne a contatto con modelli decorativi e pittorici che poi riprodusse nella sua abitazione.
Coltivava le amicizie e spesso invitava a casa i compagni delle partite a carte domenicali ai quali mostrava orgogliosamente i suoi quadri, che amava a tal punto da non volerne vendere alcuno; al massimo li prestava.

Amico del  pittore Gigi Duz, da cui è stato ritratto (il quadro è ancora alla parete), era perfezionista e metodico nel disegno e traeva ispirazione soprattutto dalla realtà, ma anche dalle opere dei grandi pittori, come attestano i suoi affrschi e dalle numerose e varie letture a cui si dedicava. A questo proposito, soleva ripetere alle figlie “Con la fantasia e la lettura si va dovunque!”.

I tanti libri che riempiono gli scaffali dello studio sono ancora quelli che egli abitualmente comprava al mercato di Portogruaro ed attestano la sua curiosità e il suo  desiderio di conoscere; giocava agli scacchi e si impegnava con tenacia a risolverne i rebus. Le figlie completano il suo ritratto con una simpatica nota di colore, sottolineando la cura quasi maniacale che il padre riservava al suo abbigliamento che risultava così elegante e ricercato e che comprendeva sempre gilè, ghette e gemelli ai polsi, ribadendo in tal modo l’originalità e unicità del personaggio nell’ambito paesano.

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Orietta Celant

Celant Orietta, via Bagnarola 13, Bagnara, pittrice; queste le scarne informazioni a mia disposizione, attinte dal depliant della mostra d’arte tenutasi a settembre a Gruaro, quando ho chiesto di incontrarla per questa nostra rubrica. E’ stato un po’ un appuntamento al buio il nostro, ma non sono certo rimasta delusa. Orietta si è raccontata con grande trasporto e sincerità, parlandomi di sé, del suo percorso artistico, dei suoi progetti ed aspirazioni.

Mi ha ricordato di come la sua passione per la pittura risalisse ai tempi della scuola media, frequentata a Cinto Caomaggiore, di cui è originaria, di come avrebbe voluto intraprendere studi di tipo artistico, ma di come questo, per una serie di circostanze, non fosse stato possibile, e di come molti la esortassero a tenere i piedi per terra, per cui lei, sia pure a malincuore, aveva dovuto cedere e aveva ripiegato su un’altra passione, quella di riserva, lo stilismo. Ecco quindi la scuola professionale per stilista di moda, accompagnata dallo studio della tecnica sartoriale, proprio per dare concretezza alla sua formazione.

Conseguita la maturità professionale, le prime esperienze di lavoro, una in particolare, nel campo dell’alta moda, che, a suo dire, le ha insegnato molto, le ha aperto la mente e le ha dato la possibilità di affinare il suo gusto e l’ha spinta a proseguire gli studi a Treviso, dove ha conseguito il diploma di stilista.
E’ un periodo questo che Orietta ricorda con piacere e che l’ha avvicinata al suo sogno di sempre: frequentare l’Accademia delle Belle Arti, sogno accarezzato ancora oggi e che prima o poi, vista la determinazione, lei si è impegnata a realizzare. “Non mollo…” ripete a questo proposito. Apre poi una sua sartoria che le dà molte soddisfazioni… “ma -dice Orietta- avevo sempre voglia di pittura che alimentavo, visitando tutte le mostre che potevo, anche se il desiderio di fare precedeva e superava l’esigenza di conoscere e di capire.”

Il matrimonio e la nascita dei figli segnano una pausa nel suo impegno lavorativo, ma la convincono al tempo stesso che dipingere per lei è vitale e cerca quindi, nei ritagli di tempo (“ancora adesso- dice- dipingo soprattutto di notte”) di “rinfrescare” il suo senso del colore, frequenta così alcuni corsi di pittura, come quelli tenuti dai maestri Mario Pauletto e Igea Lenci Sartorelli e partecipa a varie mostre, a livello amatoriale, che le danno la carica perché trova “stimolanti queste occasioni in cui c’è qualcuno che parla di te, cerca di entrare nella tua opera, di capire”.

Nel frattempo matura una sua scelta, per quanto riguarda il soggetto da rappresentare  nei suoi quadri: il suo interesse è tutto per la figura umana, in particolare quella femminile, perché, secondo lei, più complessa, con mille sfaccettature e possibilità interpretative, un mix di forza e di debolezza insieme. Riassume tutto questo, in una sorta di manifesto personale della sua poetica, in uno dei primi quadri “Il tramonto”, ispirato alla figura della madre e ad alcune tappe della vita di lei, sintetizzate con amore e sofferenza. Se le si chiede quale sia la tecnica preferita, lei, premesso che nella tessitura di un quadro considera fondamentale il disegno, i cui tratti rimangono spesso visibili nei suoi quadri, risponde che naturalmente, accanto alla matita, c’è l’olio, che dice di adorare.

Quanto al modo di procedere, aggiunge che a volte dipinge di getto, altre volte più meditatamente, a seconda degli stati d’animo e sottolinea che è essenziale per lei esprimersi con modalità diverse.
Ancora una volta, al momento di congedarci, ribadisce che la pittura è un punto fermo della sua vita, che essa ha avuto una funzione consolatoria in tanti momenti difficili e che rimane un obiettivo non certo raggiunto, ma da perseguire con tenacia e da cui si sente attratta istintivamente con forza.

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Luca Bidoli

Luca Bidoli è nato a Gorizia nel 1967, ma risiede a Gruaro da alcuni anni, anche se sono pochi quelli che lo conoscono; anche la mia conoscenza è recente e so poco della sua storia personale, ma ci sono i suoi quadri a parlare di lui, del suo mondo che ruota attorno a persone, animali e cose a lui vicini e cari: la moglie Jacqueline, i suoi cani, la sua casa, gli amici.

Il suo percorso come pittore è molto personale, lontano da scuole ed accademie, imperniato essenzialmente sulla ricerca e scoperta; inizialmente, lui dice di non aver avuto dei riferimenti culturali precisi, dei modelli; non era supportato neanche dal tipo di studi fatti, essenzialmente tecnici; gli piaceva dipingere, stop; poi di pari passo con l’estrinsecarsi della passione è venuta la sua voglia di informarsi, di conoscere, e tra i pittori che ha scoperto ed ama in modo particolare ci sono Burri ed Afro, quest’ultimo soprattutto per la potenza del segno. Egli aggiunge inoltre di non aver mai provato grande interesse per la tecnica, “anche se -dice Luca- certamente c’è stata una evoluzione nel mio modo di dipingere; inizialmente stilizzavo tutto, adesso invece amo di più il realismo, pur usando colori acidi, non reali”. Ecco, il colore, è questo uno dei segni peculiari e più originali della pittura di Luca Bidoli.

Guardando i suoi quadri si è colpiti appunto da essi, i colori, che sono quelli primari (blu, rosso, giallo), usati puri, senza sfumature, contornati spesso di nero, considerati a volte contrastanti; ma dice Luca “per me non è così, in questo modo si ha una comunicazione immediata, diretta e diventa intrigante, coinvolgente trovare un equilibrio; è un po’ la metafora della vita”.
A far da contraltare a tanta “temerarietà” coloristica ci sono però i temi rappresentati, che egli attinge dalla sua vita quotidiana e familiare e che rappresenta  in modo realistico e figurativo.
Ecco allora i suoi amati levrieri, coprotagonisti, con la moglie Jacqueline, di tanti quadri, a cui sono accostati, soprattutto nelle ultime opere, elementi vegetali a sottolineare che “l’uomo è inserito nella natura, anche se le si contrappone… nelle mie opere -ribadisce- pongo semplicemente in relazione l’uomo con la natura, evitando qualsiasi giudizio ed interpretazione”.

Egli inizia a dipingere, soprattutto per sé, nel 1988, ma lo fa sporadicamente; la voglia gli viene, a suo dire, con il trasferimento nella nuova casa, a Bagnara, in via Bosco, proprio perché gli offre un contatto continuo ed immediato con quella natura, che lui sente tanto, e che abbraccia uomini, animali e vegetali, che nei suoi quadri, a volte, si fondono assieme in una nuova creatura ibrida.

Le prime collettive risalgono al 2005, poi l’incontro nel 2006 con il gallerista Gianni Boato che ha per lui parole lusinghiere: “mi colpirono soprattutto i colori, così forti e primitivi, con tagli netti nelle suddivisioni delle immagini. C’era qualcosa che mi attraeva in questi lavori…” e gli organizza la prima personale, alla quale sono seguite molte altre a Jesolo e a San Donà. Le più recenti sono quelle realizzate a Portogruaro, presso lo studio d’architettura “Arkema”, poi al bar “La Lanterna”, e l’ultima alla galleria Degani, inaugurata il 31 marzo e rimasta aperta fino al 30 aprile.

Certo, per concludere, la sua non è una pittura accattivante, facile, ma superato lo stupore e la sorpresa iniziali, ne subisci la fascinazione e ti incanti dinanzi a tanta intensità comunicativa perché “Luca ha la capacità di tradurre in poche e semplici pennellate, un perfetto ritratto psicologico di ciò che ritrae, ed è sorprendente come riesca a dare un’anima ai suoi cani”. (Gianni Boato).

Sito ufficiale

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Lucia Pellegrin

Anche quella di Lucia Pellegrin, come molte di quelle che abbiamo testimoniato in queste pagine, è la storia di una passione che, nata inconsapevolmente sui banchi di scuola, è esplosa irrefrenabile circa 20 anni fa (nel ’88 per la precisione) ed ha costretto la nostra protagonista a fare i conti con essa.

Lucia ama il teatro, quello dialettale in particolare, non si limita a recitare, ma scrive anche  i testi dei suoi spettacoli, ne cura la regia ed idea e progetta scenografia e costumi. La fase che mi incuriosisce e mi affascina di più di questo suo teatro amatoriale, e glielo dico, è quella ideativa, in particolare quella della stesura del testo, che, una volta pronto, lei propone poi con la sua compagnia, “La Lanterna”, ad un pubblico affezionato ed attento, che la segue da parecchi anni, riempiendo numeroso le sale (mi ha parlato, in alcuni casi, anche di 700 persone). Lucia soddisfa la mia curiosità e dice che lei, autodidatta, prende ispirazione per le sue storie, rivelando peraltro buone doti di affabulatrice, dalla vita paesana, soprattutto quella del passato, dal mondo contadino e, per fare questo, attinge ai suoi ricordi, a quelli dei suoi familiari e delle persone anziane in genere che lei contatta con grande affabilità e tatto. Il suo quindi oltre che di scrittura  è anche un meritorio lavoro di ricerca e salvaguardia che raggiunge l’obiettivo di salvare dall’oblio e di rivitalizzare momenti e figure della nostra vita quotidiana passata.

Per mantenere vivacità ed immediatezza sulla scena a ciò che ha raccolto, Lucia utilizza, come già ricordato, il dialetto gruarese, (affine ad alcune varietà di friulano della Bassa), rinnovandone così l’ascolto se non l’uso. A questo punto del nostro incontro le chiedo come mai, fino a questo momento, viste le sue capacità e risorse interpretative, non abbia mai pensato di fare il salto di qualità, come forse un po’ impropriamente  l’ho chiamato, recitando sì testi dialettali ma d’autore.

Lei, con grande semplicità ma anche determinazione, mi ha confessato che non ama recitare testi altrui, ma soprattutto che in uno dei primi corsi di teatro da lei frequentati, c’è stato un regista, di cui non ricorda il nome, che ha suggerito a loro allievi, come prima regola per ottenere un buon prodotto, di cimentarsi solo in quello in cui erano preparati e “questo- aggiunge Lucia- mi è sembrato un saggio consiglio che non ho mai abbandonato e che mi ha sempre aiutato ad ottenere risultati apprezzabili; perché -aggiunge Lucia- raccontare la vita paesana è ciò che mi riesce meglio, ciò in cui mi sento più a mio agio, perchè è una materia che padroneggio, di cui conosco molte sfaccettature; inoltre -continua- rimanendo legata al territorio, rispondo concretamente alle richieste della gente, che sembra aver bisogno di un collante, dato dal ricordare insieme”.
Soffermandoci ancora sul suo teatro e sulla funzione che esso riveste all’interno di una comunità, Lucia sottolinea ancora una volta la valenza socializzante della sua esperienza e ribadisce che “è importante radunare la gente e farla lavorare assieme”; ricorda, a questo proposito, alcune rievocazioni storiche e Via Crucis, realizzate a Gruaro e a Pramaggiore, che hanno visto coinvolto un buon numero di abitanti dei due paesi e “quando questo accade, provo -dice Lucia- una grande soddisfazione che mi ricompensa di tante fatiche”.

A riprova poi di quanto la gente ami questo tipo di teatro legato al territorio e come a questo lei si senta legata, Lucia aggiunge che le arrivano richieste per i suoi spettacoli da tante località del Friuli e del Veneto, richieste che non può al momento soddisfare completamente per tutta una serie di problemi organizzativi, ma poterlo fare sarebbe per lei il “salto di qualità”.

Mi rimane ancora un’ultima curiosità e le chiedo come mai, nel rappresentare il passato abbia privilegiato la dimensione comica, ma lei mi risponde che non si tratta di un effetto cercato, ma che questa comicità nasce spontaneamente dalle situazioni che rappresenta: lei si limita a pensare ai personaggi e poi i dialoghi vengono di conseguenza.

Per concludere le chiedo di ricordare alcuni titoli delle sue pièces teatrali che riporto qui di seguito:

“Cà comandi mi”
“El figar stà a vardani”
“La vedova blancia”
“Li feri d’agost”
“Quatru fiis in età di morous”
“Giulieta e Romeo”
“La ciasa del nonu”
“Barbablù”.

e allora noto che Lucia si è cimentata anche con Shakespeare, di cui ha ridotto e tradotto in dialetto “Romeo e Giulietta” così anch’io, anima un po’ snob, sono soddisfatta e ricordo che ha fatto lo stesso anche Luigi Meneghello in “Trapianti”, quindi… brava, Lucia.

Sito ufficiale: (pagina facebook)

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Arianna Giuseppin

Ho esitato a lungo su come articolare il mio incontro – intervista con Arianna: da un lato avrei voluto cominciare da lontano, quando l’ho conosciuta sui banchi di scuola, ed aveva già la sua bella personalità, ma poi ho pensato che era più giusto e consono al nostro scopo concentrarsi sul presente, sull’Arianna restauratrice entusiasta e competente che afferma con convinzione che questa è la sua prima passione (anche se ricorda che ama anche dipingere e creare ceramiche), quella per cui ha dato e dà “corpo e anima, perchè quando le cose piacciono, non ci sono mezze misure….”.

Il suo interesse per questa branca dell’arte è iniziata già sui banchi del Liceo artistico, dove aveva scelto questo indirizzo, e si è poi consolidato, finiti gli studi, con la frequenza di un corso specialistico, a numero chiuso, organizzato dal FAI. Dopo questa formazione è entrata a far parte della DIEMMECI, società specializzata nel restauro, (da quello degli intonaci antichi a quello lapideo, a quello ligneo, a quello degli affreschi ecc.) con la quale ha preso parte a parecchi cantieri, interessandosi sempre prevalentemente di affreschi, ricoprendo anche ruoli di responsabilità, come ad Oderzo, A Cà Contarini, dove é stata capocantiere, o a Portogruaro (restauro facciata di Casa Gaiatto), gestito con una sua collega, esperienza quest’ultima che ricorda con particolare piacere. “Alla mia formazione -dice Arianna- ha senz’altro contribuito l’Umbria, terra d’origine di mia madre, e che io considero la mia patria artistica; qui ho trascorso, fin da piccola, lunghi periodi e qui, dove tutto ti parla d’arte, torno sempre quando ho bisogno di ricaricarmi. A Deruta poi ho seguito dei corsi di ceramica, dove ho appreso le tecniche antiche, ma la mia produzione si discosta da quella tradizionale, ha un taglio moderno e punta soprattutto sulla ricerca delle forme”.

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Marinella Falcomer

Questo più che il profilo critico di un’artista, Marinella Falcomer appunto, nostra concittadina, è il racconto di una passione profonda, vera, totalizzante, quella che anima appunto la nostra protagonista e la lega indissolubilmente alla pittura.
Marinella racconta, con vivacità e spontaneità che conquistano, di come si sia sentita attratta verso il disegno e l’arte figurativa fin da piccola, di come, appena ne avesse la possibilità, scarabocchiasse a matita, sopra un album, i ritratti di tutti quelli che le venivano a tiro, e di come l’avesse riempita d’orgoglio vedere esposto per tanto tempo un suo disegno nell’atrio della Scuola media di Teglio Veneto, suo paese d’origine; ma aggiunge anche che in famiglia non prendevano molto sul serio questa sua passione: un hobby va bene, ma incentrare tutta la propria vita sulla pittura, no, perchè, aggiunge Marinella, suo padre le ricordava spesso che, così facendo, si finiva sotto un ponte.
Quindi, finita la scuola dell’obbligo, ecco un corso di qualificazione professionale e l’ingresso nel mondo del lavoro in un campo, quello dell’acconciatura, che aveva pur sempre qualcosa di creativo, che lei accentuava, nei ritagli di tempo, con i ritratti delle sue clienti.

La svolta nella vita di Marinella avviene tra il 1997/8, quando, dopo la morte del padre, sente che ha bisogno di riempire il senso di vuoto che la pervade e, appoggiata dal marito e dalla figlia, decide di riprendere in mano il suo antico progetto: studiare pittura.

Lo fa con umiltà, serietà, consapevolezza; il desiderio di imparare la rende audace; ricorda, sorridendo, di come avesse trovato il coraggio, nonostante molti la sconsigliassero, di chiedere a Monsignor Pellarin, parroco del duomo di Portogruaro, di darle alcune lezioni di ritratto e di come lui, dopo aver visto alcuni suoi lavori, avesse accettato e le avesse insegnato non solo la tecnica, ma suggerito anche un atteggiamento mentale, quello di mettersi in gioco con serenità, di avere fiducia in se stessa, di affrontare il giudizio degli altri, fossero essi addetti ai lavori o gente comune… Questa lezione le è rimasta dentro, le ha dato forza e, ancora oggi la molla che la fa agire è il desiderio di misurarsi con se stessa e con gli altri per raccogliere sì consensi, ma anche consigli e critiche in un’ottica di evoluzione e ricerca continue.