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“Werckmeister harmóniák” di Béla Tarr

Per la consueta rubrica di cinema, voglio parlare di un regista a mio avviso imprenscindibile nel panorama europeo contemporaneo, poco noto ai più, ma molto amato tra critici e cinéphiles.
Béla Tarr, classe 1955, ungherese di Pécs, da anni persegue l’ideale di un cinema alternativo ai prodotti di largo consumo.

E lo fa scardinando tutte le regole base di ciò che il mercato oggi per lo più propone, e cioè:

  • evitando le trame semplici e prevedibili  od eccessivamente bizzarre ed arzigogolate di molte supposte “pellicole originali”;
  • evitando l’utilizzo di dialoghi e linguaggi eccessivamente banali ed elementari (talora anzi si dilunga in citazioni poetiche);
  • evitando di ingaggiare attori famosi o presunti tali, la cui capacità di recitazione è spesso  inversamente proporzionale all’aspetto fisico; e anzi privilegiando gli sguardi duri, brutti ma espressivi di intepreti sconosciuti ai più;
  • evitando l’utilizzo smodato di effetti speciali per inebriare lo spettatore,  se non se ne sente l’esigenza;
  • utilizzando una fotografia in bianco e nero, fatta più di neri che di luci, più di nascosti che di evidenze, più di naturalezza che di artificiosità;
  • evitando tassativamente quella regia da videoclip per la quale lo spettatore rimane colpito più dalla velocità e sequenzialità delle scene che non dalla cura delle stesse; prendendosi dunque tutto il tempo necessario alla costruzione di riprese estremamente lunghe e complicate.

Stanti tali premesse, l’obiettivo del presente articolo è facilmente desumibile: è possibile trovare (ed è auspicabile cercare) una tipologia di film che abbiano maggiore spessore intellettuale di quelli che vanno per la maggiore.
“Le Armonie di Werckmeister” terza opera del succitato Béla Tarr, è sicuramente una delle possibilità da prendere in considerazione.
In questo lavoro si concentra infatti tutta la poetica precedente del regista (che, ricordiamolo, è autore anche di “Satantango”, dell’epica durata di 7 ore e mezza), e si esplicita attraverso 39 -bellissimi- piani sequenza per una durata complessiva di 145 minuti.
All’interno di questi “long-takes” la macchina da presa si distingue per eccellenza e maestria, riprendendo  avvenimenti complessi e frastorna(n)ti con un’abilità tecnica ed una consapevolezza che ha pochi eguali nella storia del cinema (vedi alle voci “Orson Welles”, “Stanley Kubrick” o “Alfred Hitchcock”).
La trama in breve: in una piccola città di provincia ungherese giunge un piccolo circo che ha due uniche attrazioni: un’enorme balena imbalsamata e un misterioso nano chiamato “il Principe”.
Nella solitudine del suo studio György Eszter studia una teoria musicale che vuole sovvertire l’ordine armonico stabilito nel ‘700 da Andreas Werckmeister.
János Valuska, il ragazzo che consegna i giornali, fa la spola tra lo studio del musicista e la piazza del mercato dove il Principe incita i frustrati e poveri abitanti alla distruzione di tutto.
Una notte la furia divampa e qualcuno ne approfitta per prendere il potere.
Detta così, e di fronte all’universalità anche politica di una trama che tange sia i percorsi esistenziali che le emozioni più profonde dell’uomo, ci si ritrova a condividere con il regista sia la tematica del progressivo imbarbarimento dei rapporti interpersonali che l’inevitabile consapevolezza, come cittadini, della propria “riduzione in schiavitù”: temi quanto mai portanti dei nostri  tempi (ed il film è del 2000).
L’autore non lesina nel rappresentare l'”hobbesiana” sopraffazione dell’uomo sull’uomo, ma la violenza che ne scaturisce è quasi catartica: non a caso una delle scene madri della pellicola è costruita come una sequenza a la “Metropolis” di Fritz Lang.
Ed è direttamente a noi spettatori che egli si rivolge quando tocca punte di lirismo visivo che letteralmente spiazzano,  costringendoci a riflettere sull’insensatezza delle nostre azioni. Non è un’opera a tesi, ma è impossibile non cogliervi un riferimento universalistico.

Un decennio cinematografico che produce un capolavoro come questo è un decennio che merita di essere vissuto.

P.S. Consiglio ai (potenziali) spettatori: se la sequenza iniziale non vi cattura sospendete senza remore la visione, non vi si confa.

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