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Canova, l’ideale classico tra scultura e pittura

Dal 25 gennaio al 21 giugno si svolge a Forlì nei musei di San Domenico una mostra dal titolo “Canova, l’ideale classico tra pittura e scultura”. Questa mostra è sicuramente importante perché è la più completa esposizione sino ad oggi dedicata al maestro veneto. Attraverso una serie di capolavori esemplari, l’esposizione ripercorre l’intera carriera del Canova, ponendo per la prima volta a confronto le sue opere (marmi, gessi, bassorilievi, bozzetti, dipinti e disegni), oltre che con i modelli antichi cui si è ispirato, anche con i dipinti di artisti a lui contemporanei con i quali si è confrontato. La scultura è una costante della vita di quest’artista; infatti egli nacque a Possagno (TV) il 1° novembre 1757 in una famiglia in cui da generazioni  si lavorava e si scolpiva la pietra.

Dopo la morte del padre e il secondo matrimonio della madre viene affidato al nonno che gli insegna il mestiere di scalpellino. Fin da giovanissimo, egli dimostrò una naturale inclinazione alla scultura: eseguiva piccole opere con l’argilla. Si racconta che, all’età di sei o sette anni, durante una cena di nobili veneziani, in una villa di Asolo, abbia eseguito un leone di burro con tale bravura che tutti gli invitati ne rimasero meravigliati; il padrone di casa, il Senatore Giovanni Falier, intuì la capacità artistica di Antonio Canova e lo volle avviare allo studio e alla formazione professionale. Grazie a Falier infatti ottiene a Venezia le prime commissioni che gli permettono poi di compiere nel 1779 il decisivo viaggio a Roma, città in cui si stabilì definitivamente nel 1793.

A Venezia e Roma cresce la passione di Canova per l’arte antica a cui si ispirerà nelle sue opere, in piena conformità con il pensiero del Neoclassicismo diffuso in quel periodo. Altra cosa importante da sottolineare è il luogo dove si svolge la mostra: non in molti sanno che Forlì è stato uno dei luoghi fondamentali per Canova e, in generale, per il neoclassico in pittura e scultura, e per la città l’artista creò tre capolavori.

Tra questi in mostra c’è una versione di Ebe, realizzata tra il 1816 e il 1817, per la contessa Veronica Guarini, che sarà messa a confronto con l’altra versione appartenuta all’imperatrice Giuseppina moglie di Napoleone, dove Ebe è rappresentata su una nuvola.

In questa scultura, come era solito fare, Canova adopera il marmo bianco che riesce a rendere armonioso, modellandolo con plasticità e grazia, finezza e leggerezza. La figura sembra quasi avere un proprio movimento, vivere nella sua  immobilità. Fondamentale è il tocco “dell’ultima mano”, dove l’artista apporta le decisive modifiche. Una caratteristica particolare del suo talento è la levigatura delle opere, sempre raffinata al massimo, grazie alla quale i suoi lavori hanno uno speciale effetto di lucentezza che ne accentua la naturale e splendida bellezza; inoltre aveva l’abitudine di spalmare sull’intera superficie epidermica una speciale patina. Il composto doveva essere formato da una mistura di pietra pomice, da una tintura giallognola o, fuliggine o “pura cera e acqua elaborata dallo speziale” o “acqua di rota” (cioè acqua sporca dall’arrotamento di strumenti metallici). Lo scopo era quello di anticipare gli effetti del tempo “il quale sovente dà alle opere quell’accordo e quell’armonia che l’arte può difficilmente imitare”. Osservando le opere di questo artista non possiamo che ripetere che incarna perfettamente l’ideale che Winckelmann riconosceva alla scultura greca: “la nobile semplicità e la serena grandezza”.

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Marcello e i “The Professionals”

Anche la storia di Marcello C., come quelle ospitate precedentemente in questa pagina, è la storia di una passione, iniziata lontano nel tempo, quando il nostro protagonista aveva 8 anni, a Catania, e condivisa con il fratello e poi con altre persone, (la nostra sarà sempre infatti una storia al plurale) che ha avuto ed ha tuttora come oggetto la musica, non tanto e solo ascoltata, ma praticata, suonata assieme ad altri.

Marcello racconta che a 8 anni appunto, di nascosto, lui e suo fratello si erano comperati una chitarra, mettendo insieme faticosamente le 6000£ necessarie; tutto all’insaputa dei genitori e in particolare della mamma che, da buona insegnante, considerava la musica una possibile fonte di distrazione. Il segreto rimane tale solo per 2 giorni, e quando la chitarra viene scoperta, viene loro intimato di riportarla indietro, ma per fortuna il negoziante non ne vuole sapere di riprendersela, per cui è giocoforza per la madre accettare la situazione. Incomincia così lo studio, suo e di suo fratello, da autodidatti, dello strumento, mentre all’educazione del loro gusto musicale contribuiscono i fratelli più grandi, che ascoltavano i Platters e poi i Beatles, per citarne solo due.

A 11 anni Marcello e Roberto, il fratello, danno vita, con alcuni coetanei, al loro primo complessino e passano i pomeriggi a provare nel garage di un amico, in un condominio in quel di Catania. Finalmente, per il loro tredicesimo compleanno, il debutto davanti a tutta la famiglia e da quel momento non hanno più smesso, anche se ci sono state delle pause involontarie nell’attività del gruppo, dovute ai trasferimenti della famiglia e a motivi di studio, ma la passione è rimasta, sempre alimentata, coccolata e si è andata definendo meglio finchè nel 1991 è nata la band “The Professionals”, attiva ancora oggi, sostanzialmente sempre con gli stessi componenti, o quasi.

“Profondamente legati alla musica nera degli anni ‘50 e ‘60, e in particolare al blues e al Rhythm’n’Blues, The Professionals riescono ad accattivarsi il pubblico grazie alla riproposta di questo genere musicale trascinante e coinvolgente…” così è scritto nella home page del loro sito ed io sottoscrivo in pieno questo giudizio, perché ho avuto l’opportunità di ascoltarli e li ho trovati capaci e divertenti, ma proporrei all’estensore della presentazione di sostituire accattivare con conquistare che rende maggior giustizia al loro talento esecutivo.

Di Marcello poi, Drum, sempre nel sito ufficiale della band si legge questo breve ritratto “(è) il personaggio più misterioso del gruppo. Grande cultura musicale unita ad una tonica destrezza gli permettono di cimentarsi contemporaneamente alla batteria e alle tastiere. Semplicemente incredibile”. (Dettaglio singolare e simpatico: lo stesso ritratto è utilizzato specularmente anche per il fratello gemello, quasi a sottolineare la loro intercambiabilità). Misterioso Marcello un po’ lo è: lui, normalmemte cordiale ed estroverso nella vita di relazione, diventa più riservato, quasi restio a raccontarsi come musicista, non so se per modestia, o per gelosa custodia di questa sua passione che ritiene più giusto vivere e condividere fattivamente con amici e fans piuttosto che affidarla alle parole. Parla invece con piacere, sottolineandone le qualità professionali, di quanti suonano con lui nella band, come il suo sosia e gli “amici fraterni” Umberto Baggiani, Neck Collini e “Al” Caicco, e di quanti hanno hanno suonato e cantato nel gruppo, come Gigi Todesca, Davide Drusian, Ice Casaro, Monica Roncolato e Valentina Roman, l’ultima cantante in ordine di tempo. In passato ricorda, rispondendo ad una mia domanda, di aver accompagnato, in occasione di “feste di piazza” vari interpreti e suonato con strumentisti noti in Italia e fuori: tra gli altri Juni Russo (quando si chiamava ancora Giusi Romeo), Ninni Rosso, Donatella Moretti, Mino Reitano e Mario Merola.

Il repertorio di The Professionals comprende canzoni quali Midnight hour, Knock on vood, 6345-789, Shot gun blues, Proud Mary, Sweet Chicago, Soul man, tutti brani resi immortali dai grandi del R&B, da Wilson Pickett a Otis Reding, a Sam & Dave e via elencando, eseguiti, dicono gli intenditori “con ottima tecnica strumentale e la più totale padronanza del repertorio”.

La band ha suonato in numerosi locali di tutto il Triveneto, e Marcello cita con particolare piacere, e in questo caso sì con una punta d’orgoglio, il locale “Al vapore” di Mestre, location  prestigiosa dal punto di vista musicale; e qui la loro esibizione è stata accompagnata, ancora una volta, da giudizi positivi e lusinghieri, per i quali vi rimando al sito (www.theprofessionals-band.it).
Nel loro curriculum figurano anche 2 cd ed un dvd.

Le notizie raccolte hanno solleticato ulteriormente la mia e, anche spero, la curiosità dei lettori, per cui non ci resta che auspicare di poter assistere al più presto ad una esibizione de’ “The Professionals” a Gruaro per apprezzare dal vivo quanto letto.

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“Che” di Steven Soderbergh

 

“Un vero rivoluzionario è guidato da un grande sentimento d’amore: amore per l’umanità, amore per la giustizia e per la verità”.
Ernesto Guevara

Film fortemente voluto dall’attore Benicio Del Toro (che ne è anche co-produttore assieme a Laura Beckford), peraltro giustamente premiato per la sua interpretazione al 61esimo festival di Cannes (2008), ispirato direttamente ai diari del compagno Guevara (Diario della rivoluzione cubana e Diario in Bolivia), scritto dal fidato Peter Buchman, il penultimo lavoro dell’eclettico Steven Soderbergh (regista che con assoluta naturalezza passa da film indipendenti a mega produzioni hollywoodiane), è di dificile valutazione critica.

Di sicuro è magistralmente curato, e per le tecniche di ripresa adottate (soprattutto nella prima parte, con quei salti da un bianco e nero sgranatissimo dell’uomo pubblico ai sparatissimi colori digitali del “barbudo” che arranca nella Sierra Maestra), e per il montaggio (ad opera dello stesso Soderbergh), e per la curatissima fotografia e per la colonna sonora, molto presente e mai inopportuna.

Ma di sicuro è anche magistralmente audace, sia per la scelta di girarlo interamente in lingua spagnola, sia per la durata di 4 ore e mezza (inconcepibile per un certo modo di intendere il cinema, e anche ahimè per i distributori, che han pensato di tagliare il film in due parti e farlo uscire separatamente) ma soprattutto per l’inevitabile rischio in cui si incorre nel rappresentare una vita così breve ma così densa come quella del Comandante Ernesto “Che” Guevara: o di risultare eccessivamente celebrativi o al contrario noiosamente pedanti. “Il parto” dell’opera in questo senso è emblematico (frutto di una gestazione di oltre 10 anni), ed è evidente anche l’estrema difficoltà in cui il regista incorre nel cercare continuamente una via che si ponga in posizione intermedia rispetto a questi due opposti. La scelta di fondo è dunque quella di focalizzarsi sull’elemento “uomo” di Guevara, e derubricare il mito ad elemento di valutazione da parte dello spettatore.

Quest’ottica è coerente con la scelta di stigmatizzare in bianco e nero gli spezzoni del Guevara “istituzionale”, nel suo discorso all’ONU, in cui il grande idealista e provocatore non lesina a farsi beffe e lanciare accuse ai delegati e diplomatici americani per poi concludere con il famoso “patria o muerte”; oppure ancora con le citazioni tratte dall’intervista trasmessa dalla CBS il 14 dicembre 1964, che ancor maggiormente evidenziano l’obiettivo del regista: non quello di dare lezioni di storia, o tantomeno di celebrare la politica cubana, ma esclusivamente di raccontare una vita vissuta all’interno della Storia. Ciò si evidenzia ancora maggiormente nella seconda parte della pellicola, che aprendosi con la lettura da parte di Fidel della lettera di rinuncia agli incarichi istituzionali da parte del Che rende la sua figura ancor più solitaria e per questo umana.

In questo senso il viaggio in Bolivia per esportare la rivoluzione si caratterizza da subito come una “via crucis laica”, in cui un sottile presentimento di disfacimento e caduta è continuamente sottolineato da un’efficace ripresa con camera a mano, dal progressivo rallentamento del ritmo e dalla sempre più preponderante visione in soggettiva da parte del protagonista. Tale visione in soggettiva trova il suo culmine nel finale: la morte è vista attraverso gli occhi del Che, viene ad essa negata una piena rappresentazione. Semplificando, la prima parte si può definire “il film della vita” (nel senso più ampio del termine) e la seconda “il film della morte” (nel senso più strettamente “personale”).

Non si versano lacrime durante la visione, non c’è pathos né celebrazione, non ci sono misteri da svelare né trame intricate, ma c’è la fierezza di un uomo, e di un gruppo di compagni, che hanno creduto negli ideali di uguaglianza e di liberazione dei popoli oppressi, un sentimento quantomai moderno ed attuale nelle esperienze politiche dell’America Latina odierna.

scheda film su IMDb, prima parte

scheda film su IMDb, seconda parte

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Canaletto, il pittore dei tesori di Venezia

A Treviso a Ca’ dei Carraresi dal 23 ottobre 2008 al 5 aprile è in corso una mostra su Antonio Canal, meglio conosciuto come Canaletto.
Mi sembra doveroso segnalare la presenza di questa mostra perché raccoglie un notevole numero di opere dell’artista e perché grazie ad essa arrivano in Italia per la prima volta due importanti dipinti di Canaletto: Ingresso solenne del conte di Gergy a Palazzo Ducale del Hermitage di San Pietroburgo ed Il ritorno del Bucintoro del Museo di Mosca Puskin. Vediamo però di capirne di più su questo artista e sulle sue opere.
Canaletto è sicuramente il primo e più conosciuto pittore vedutista veneziano. Il pittore (Venezia 1697-1768) inizialmente però è in realtà attivo come scenografo a fianco del padre, nel 1719 compì un viaggio a Roma, in seguito al quale, abbandonò il teatro preferendo ritrarre vedute dal naturale. Sembra tuttavia più probabile che la conversione al vedutismo sia avvenuta per gradi e che il giovane Canaletto abbia cominciato col dipingere paesaggi di fantasia con rovine classiche, per giungere poi alla veduta vera e propria, seguendo gli esempi del Van Wittel. Il gusto dello scenografo è ancora evidente in certi tagli a effetto e nei forti contrasti chiaroscurali che animano il saldo impianto prospettico delle vedute.

Verso la fine del terzo decennio del secolo, l’osservazione più attenta della luce naturale e una più acuta sensibilità per i valori atmosferici condussero l’artista alla creazione di vaste composizioni percorse da una luminosità intensa che conferisce, in un sottile accostamento di rapporti cromatici, risalto a tutti gli elementi della veduta, dalle architetture alle minuscole figure, che animano la composizione e danno un’idea della dimensione degli edifici, e allo scintillio delle acque della laguna.

Le rappresentazioni del Canal Grande, dei “campi” veneziani e di località dell’entroterra lagunare o lungo il Brenta, nelle quali appaiono fissati in forme di limpida bellezza gli aspetti monumentali e anche quelli minori della città e dei dintorni, sono dipinte con abilità meticolosa e volontariamente impersonale. Una prospettiva rigorosa, la cui perfezione tradisce l’impiego della camera ottica, ordina lo spettacolo veneziano dei canali e  dei  palazzi, cui  l’ambientazione luminosa conferisce un tono di poesia.

La veduta è per Canaletto e per i vedutisti, un documento oggettivo di luoghi o eventi storici richiesto sia dalla committenza locale, sia da visitatori stranieri o da chi non potendo affrontare un lungo viaggio, desiderava conoscere ugualmente, attraverso la rappresentazione pittorica, luoghi tanto famosi. Le vedute erano scrupolosissime, tanto che, per ottenere maggiore verità di quanta non possa restituirne l’occhio umano, quest’artista, come già detto prima, fa uso della camera ottica. La camera ottica è uno strumento che facendo passare all’interno, attraverso un piccolo foro, i raggi della luce, permetteva di proiettare l’immagine su uno schermo di carta oleata o su un vetro smerigliato. Il pittore poi ricalcava questa immagine e questa era la base di partenza della veduta. Questo però non significa che i vedutisti dipingessero all’aria aperta come fecero poi gli Impressionisti: il quadro veniva assolutamente finito in bottega.

Analizzando le opere di un vedutista come Canaletto bisogna anche assolutamente tenere conto del periodo in cui operano questi artisti. Il genere della veduta infatti si inserisce in un clima particolare: Venezia nel Settecento visse un epoca di declino politico e militare. In questo periodo però, per contrasto, ci fu la volontà di dare alla città un volto ricco e fastoso. Cerimonie ufficiali, parate sul mare, ricevimenti, spettacoli si susseguivano in laguna. Cataletto è sicuramente cronista fedele di questa vita cittadina; basta osservare il ritorno del Bucintoro per capire che quest’artista vuole rendere la bellezza splendente della città. Nulla è rappresentato per caso, tutti i dettagli contribuiscono a far comprendere la grandiosità della Serenissima, già la scelta di rappresentare il Doge mentre sbarca dal Bucintoro sottolinea sicuramente l’importanza e la maestosità della Repubblica di Venezia. Inoltre, per aggiungere credito a questa voglia del pittore di esaltare la Serenissima con i suoi quadri, è sicuramente utile notare che anche quando Canaletto dipinge degli angoli poco conosciuti di Venezia fa risaltare comunque la bellezza della città, rappresentando le persone molto piccole in modo da far risaltare l’imponenza e la sfarzosità dei palazzi. Questa esaltazione di Venezia è sicuramente uno dei motivi che ha reso Canaletto uno dei pittori più conosciuti e più stimati.

per informazioni sulla mostra: www.artematica.tv

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“Entre les murs” di Laurent Cantet

Periferia parigina, una scuola media, una classe, un professore di francese.
Così si potrebbe riassumere l’intera vicenda del film di Laurent Cantet, Palma d’oro a sorpresa all’ultimo festival di Cannes (2008).
“La classe”, o il più appropriato titolo originale “Entre les murs”, si basa sul romanzo-diario di François Bégaudeau, giovane professore della scuola “Françoise Dolto” del XXème arrondissement di Parigi, nel quale racconta la propria esperienza di insegnante alle prese con una classe multietnica, percorsa da inquietudini, difficoltà linguistiche, disparità sociali e conflitti nemmeno troppo latenti.
Bégaudeau, oltre che autore del romanzo, collabora alla sceneggiatura ed è l’interprete principale del film, pur mascherato dietro lo pseudonimo “François Martin”.
Gli studenti, gli altri insegnanti ed i genitori fanno invece parte di un gruppo di volontari, selezionati dal regista durante il periodo di preparazione della pellicola, durato un intero anno scolastico.
Tutto ciò, unito alla scelta di adottare uno stile quasi documentaristico, conduce inevitabilmente all’assoluta indistinguibilità della finzione -raccontata sullo schermo- dalla realtà -vissuta da Bégaudeau-.
Ed è proprio questa indistinguibilità che -per assurdo- funge da punto di forza e “di traino” del film: la scelta del regista di astenersi dalla formulazione di espliciti giudizi, la struttura del film “episodica”, la claustrofobica ambientazione (non si esce praticamente mai dall’aula, raramente dall’edificio scolastico), finanche l’assenza di musica, catturano in maniera inestricabile lo spettatore, per tutte le due ore e più di durata della pellicola.
A questo ovviamente contribuiscono il ritmo elevato e le ottime intepretazioni dei ragazzi, in grado veramente di far appassionare alle loro storie, ai loro trascorsi e difficoltà, alle loro fatiche e svogliatezze, almeno quanto appassionano il professor Martin-Bégaudeau.
Il professore, da questo punto di vista, è un “gioiellino”: orgoglioso del proprio ruolo, amante del proprio mestiere, consapevole dei propri limiti e talora succube di un sistema educativo che non condivide, incappa continuamente in successi e fallimenti, in costruzioni e ricostruzioni, e si scontra periodicamente con situazioni che da un’ottima fase di “produttività intellettuale” sfociano nell’accidia più sconfortante. Ma le sue frustrazioni ed i suoi tentativi sono umanamente comprensibili, e lo rendono agli occhi dello spettatore molto più “normale” di quanto non vorrebbe -e potrebbe- essere: il senso della sua “missione” non è quello di trasformare situazioni (sociali, culturali, economiche) evidentemente al di fuori dei suoi ambiti, quanto quello di instillare nelle menti dei suoi discepoli e negli occhi dei loro genitori un comune senso di appartenza allo Stato.
In tale ottica, vedendo lavori come quelli di Cantet, si realizza che quando a proposito di scuola si sente parlare di “classi separate”, “corsi di lingua per stranieri”, “competenze specifiche” s’intenda in realtà “discriminazione”, “minimo formativo”, “meno insegnanti”.
L’integrazione passa attraverso la formazione, non è detto che sia un successo, ma il tentativo è l’unica strada percorribile. Visione consigliata a tutti coloro che amano il mestiere formativo, astenersi insegnanti demotiva(n)ti.

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Joan Mirò

Mi sembra giusto e doveroso dare rilievo ad una mostra che si è svolta, dal 7 dicembre 2007 al 2 marzo 2008, a Pordenone presso le sale espositive del palazzo della provincia. Questa mostra è la continuazione delle precedenti esposizioni dedicate all’incisione, legate alla Triennale europea dell’incisione. Quest’anno la mostra era dedicate a uno dei maggiori artisti del ‘900: Joan Mirò.

Osservando le opere della mostra, esclusivamente grafiche, si percepisce subito la vicinanza di questo artista al movimento surrealista. Le opere di Mirò infatti sono un insieme di segni, di forme e di colori (che non a caso sono prevalentemente il rosso il giallo e il blu, cioè i tre colori primari) apparentemente senza senso, ma che poi improvvisamente diventano emozioni e sensazioni sempre nuove e sempre diverse, lasciando spazio all’interpretazione soggettiva. Quando si guarda un’opera di questo artista si apre un mondo fantastico, fatto di sogni, fatto di quello che viene chiamato inconscio, in piena linea con il surrealismo.

Nel 1924 esce infatti il manifesto surrealista di André Breton, che definisce il Surrealismo un “automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente che in ogni altro modo, il funzionamento reale del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale”. L’automatismo psichico significa quindi liberare la mente dai freni, come la razionalità, la moralità, l’educazione, così che il pensiero sia libero di vagare secondo libere associazioni di immagini e di idee. In tal modo si riesce a portare in superficie quell’inconscio che altrimenti appare solo nel sogno. Aspetti fondamentali del movimento sono la rivalutazione della componente irrazionale della creatività umana e la liberazione dell’inconscio: un rifiuto della logica a favore di una totale libertà di espressione.

Lo stesso Mirò dice: “La scoperta del surrealismo, ha coinciso per me con una crisi della mia pittura, determinando la svolta decisiva che mi ha fatto abbandoare il realismo per l’immaginario”.

Mirò però non è mai astratto, le sue immagini alludono a qualcosa, infatti si pone in bilico tra conscio e inconscio, perché ogni forma, ogni segno si organizzano nello spazio, volutamente infinito, in un’immagine che non sembra avere nulla a che fare con la realtà, ma che certamente parte proprio da essa, riproducendo cose ed oggetti reali, anche se rimescolati in maniera del tutto originale ed “assurda”. Nelle opere di questo artista non vi è gerarchia, tutto ha la stessa importanza, tutto sembra stabile, ma in realtà non è così, ogni opera se osservata attentamente diventa esplosione di segni, colori, forme e figure.

Alberto Giacometti dà, a mio parere, una definizione perfetta di Mirò quando dice: “Miró era la grande libertà. Qualcosa di più aereo, di più libero, di più leggero di tutto quanto avessi visto. In un certo senso era assolutamente perfetto. Miró non poteva fare un punto senza farlo cadere nel punto giusto. Lui era talmente pittore che gli bastava lasciar cadere tre macchie di colore sulla tela perché essa esistesse e costituisse un quadro.”.

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Sempre a proposito di scuola…

Riceviamo e volentieri pubblichiamo…

Caro diario,
la scuola è cominciata da più di quattro mesi e ti confesso che sono cambiate un po’ di cose.

Il mio primo giorno di scuola, il mio primo giorno alle medie, perchè questa è la novità, non è stato brutto, a dire il vero lo pensavo peggio.
Arrivata a scuola, stavo aspettando, un po’ intimidita, di entrare in classe.
Non sapevo come funzionava, quindi mi guardavo attorno per capire cosa avrebbero fatto gli altri per poi imitarli.

Ad un tratto una voce gridò: “Mettetevi in fila”.
Io e quelli che sarebbero stati i miei compagni ci dirigemmo, nervosi, verso quella che sarebbe diventata la nostra scuola per i prossimi tre anni.
Entrati in classe, ognuno di noi scelse il posto che preferiva, ben sapendo che i professori, seguendo criteri diversi dai nostri, lo avrebbero cambiato.

In questi quattro mesi, come ho già detto, le cose sono un po’ mutate: sono alle prese con materie nuove, professori al posto delle maestre, compagni e ambiente diversi… il passaggio è stato, e a volte è ancora, faticoso, ma interessante.

Quando ero alle elementari, mi chiedevo sempre come avrei affrontato le medie. Avevo, lo confesso, un po’ di paura, ora posso dire che la mia paura era ed è la stessa di tutti i bambini che, come me, stanno per salire una scala, perché in fondo noi siamo ancora i bambini di 5°, in bilico sopra un gradino con su scritto “non sono né grande, né piccolo”, con addosso il desiderio di essere grande e la paura di non esserne all’altezza.
A questo punto, mi viene in mente il titolo di un libro abbastanza noto, “Io speriamo che me la cavo”, ecco io spero non solo di cavarmela, ma di essere sempre all’altezza di quello che chiedo a me stessa: imparare, imparare ed ancora imparare… ed affrontare serenamente i gradini che dovrò salire durante il mio percorso scolastico.

Un’alunna.

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Poesie

Le poesie qui riprodotte sono tratte da una raccolta, premiata  a Portogruaro come miglior lavoro poetico realizzato nell’ambito scolastico ed è stata redatta dalla classe III della Scuola media statale di Gruaro.

Gioia

Il fiume è felice
Di vivere in curve perfette
Tra carezze di tenere alghe
E allegre voglie di nuoto.
Il fiume è felice
Di scorrere in liquidi nastri
Per cercare il sogno d’andare
Nella calma serena del mare.
Il fiume è felice
Di nutrire squame guizzanti
E bagnare rive assolate
E campi, paesi e città.
Il fiume è felice, felice…

Sonia Nosella

Se fossi…

Se fossi un pesce
Non nuoterei con le altre trote
Ma mi fermerei
Ad ascoltare il fiume.
ShhShhh
Shhhh….
Sussurrano le onde…
Gra gra gra….
Gracida la rana
Swishhh swishh
Ploc.
E questo? Non so.
Vedo un verme bello grasso
Annegare nel fiume.
Mi avvicino cauto e…

Zzzzzz

Il pescatore ritira la lenza.

Giulia Bozza

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“No Country For Old Men” di Joel e Ethan Coen

La cosa più curiosa del pluripremiato “No country for old men” (in italiano “Non è un paese per vecchi”), l’ultimo film dei fratelli Coen che ha vinto ben 4 Academy Awards, tra cui migliore film, migliore regia e migliore sceneggiatura non originale, oltre al miglior attore non protagonista Javier Bardem, è che forse è il film meno “coeniano” della loro carriera. Quantomeno per la sceneggiatura, non originale, tratta dall’omonimo romanzo di Cornan McCarthy, o per la scarsezza di quegli elementi tipici dei loro film (lo humour nero, le paranoie, le situazioni surreali e le battute al fulmicotone), ma soprattutto per la mise en scène di questo noir / road movie: asciutta, dura, nerissima e spietata, che non lascia letteralmente alcuna tregua allo spettatore.

La storia, ambientata in Texas negli anni ‘80, s’intreccia su più livelli narrativi: si parte dalla vicenda di un reduce dal Vietman, Llewelyn Moss (Josh Brolin), casualmente ritrovatosi sul luogo di un regolamento di conti, senza superstiti, tra narcotrafficanti. Nell’occasione s’impossessa di una valigetta contenente due milioni di dollari, dando così il via a quella che potrebbe apparentemente sembrare una classica “caccia all’uomo”. Il tenace ed inquietante killer Anton Chigurh (uno strepitoso Javier Bardem) viene infatti incaricato di rintracciare Moss ed il maltolto. La storia, per come la conosciamo, ci è narrata attraverso gli occhi del protagonista “facente funzioni”: lo sceriffo Ed Tom Bell (interpretato da Tommy Lee Jones), che si trova ad indagare sulla carneficina iniziale e di conseguenza, suo malgrado,  a mettersi sulle tracce sia del ladro che dell’inseguitore.

I personaggi (e gli interpreti) sono straordinari: Chigurh è alto, lento, con un ridicolo taglio di capelli e una propensione ad innescare dialoghi altrettanto divertenti, ma è il male assoluto, l’assassino folle, che decide il destino delle vittime tirando una monetina. Moss è un novello cowboy, lanciato in un’avventura sproporzionata rispetto al suo status di solitario cacciatore, consapevole del rischio che sta correndo e quasi rassegnato all’inevitabile; lo sceriffo Bell, infine, è il tipico poliziotto ad un passo dalla pensione, dai pensieri e dalle azioni contrastanti, che insegue impotente e sempre più demotivato.

Questi i personaggi, il tema principale è l’ineluttabilità del male. Il mondo rappresentato è un posto malvagio, governato dal caso, dove solo i malvagi o gli sconfitti possono avere dei principi. Di qua un mare magnum di inettitudine, bigottismo e sconforto, dove qualunque azione che tenti di arrestare il flusso dell’orrore risulta assolutamente ed inevitabilmente inefficace.

E dunque il film è sporco, violento (si perde il conto dei cadaveri), amaro e senza speranza, finanche privo di musiche (tranne per un piccolo complessino che suona in una situazione stramba) e le scene si rincorrono in un susseguirsi continuo di tensione e “pugni allo stomaco”. Non c’è scampo, non ci sono vie d’uscita, “There are no clean getaways”, recita appropriatamente il sottotitolo originale), il vinto non gode di alcun riscatto, nemmeno in punto di morte.
Eppure, in un quadro così sconsolante, in uno svolgimento così cupo, il finale riesce ad essere di rara poesia, una bellezza legata ancora ad una volta al sogno, una chiosa sul personaggio dello sceriffo, ormai in pensione, che lascia nel contempo sorpresi e soddisfatti.

Curioso come l’Academy abbia premiato un film così lontano dagli stilemi classici del cinema hollywoodiano, così destabilizzante di un certo modo di pensare il proprio mondo, negli Stati Uniti d’America, e che di certo esplica splendidamente quell’inquietudine di fondo dell’uomo occidentale moderno, sempre più stretto tra l’individualismo sfrenato e l’inevitabile necessità di riflettere sul proprio assetto sociale.
Va dato pertanto merito ai fratelli Coen di aver realizzato un lavoro tutt’altro che ruffiano o di facile consumo, e altrettanto all’Academy per il coraggio mostrato nel darne il giusto risalto.

Che sia proprio qui la ripartenza dell’asfittico cinema americano?

scheda film su IMDb

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Metti una mattina a scuola…

Riceviamo e volentieri pubblichiamo…

7:55. prima campanella. Ancora nessuno all’orizzonte. 8:00. Seconda campana. Una mandria di giovani colorati si riversa in classe, sulle spalle l’Eastpack, in mano l’amato espresso della macchinetta.
Tra i visi assonnati si può già scorgere il terrore del compito della quinta ora, quel terrore che si prova quando si sa di non sapere.

Per fortuna a scuola, almeno in quella, ci si aiuta ancora.
Un matematico impertinente spiega ad un capannello di compagni la formula della circonferenza; un altro decanta Parini; una compagna declina gli aggettivi in tedesco.
Pian piano le menti si animano, i pensieri cominciano a vorticare sempre più veloci.
Le matite fremono, i cancellini indugiano; si pongono domande, si danno risposte.

Oggi in Italia è successo qualcosa di importante. Allora si alzano le mani, i toni si scaldano, sbuffi salgono qua e là come i vapori di una locomotiva; non è vero che ai giovani italiani la politica non interessa; noi ne parliamo eccome. Purtroppo però non se ne capisce granché…

Le lezioni vanno avanti, alcune lente, altre veloci. Ora a scuola si può ridere. Si ride di una battuta di un compagno, del nome assurdo di qualche filosofo medioevale, della bidella che entra correndo. Però si ride. Lo trovo molto bello.

Suona la 5°ora. Dalla retrovie si alzano scongiuri alla martire via, si implora pietà. Nulla da fare: questo compito s’ha da fare.
Le teste si chinano. Ci si avvicina più che si può per farsi coraggio e copiare quella data lì.

Scriviamo, sempre più veloci scriviamo. A volte, scriviamo per quei professori per cui abbiamo passato pomeriggi interi a studiare, per quei professori che ti fanno stare in bilico sulla sedia perché ciò che stanno facendo non è propinarci dati di carta bensì regalarci il loro sapere nella miglior confezione possibile.

Suona. Si consegna.
Si infilano i cappotti le cartelle si chiudono.
La mandria di giovani dai sogni troppo grandi se ne va.
Senza chiudere la porta.

Sara Andreini

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