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35 scatti per 10 giorni in Cina: “Qilu International Photography Week”

Circa 2300 anni fa, in Cina, viveva un certo Mo-Tse.  Ricercatore ed inventore, scrisse un libro (Mo Jing) che conteneva il risultato delle sue osservazioni. Quest’anno, la Cina attraverso l’APS (Artistic Photographic Society of China) ha voluto rendere omaggio a quel personaggio che, in sostanza, ha scoperto il principio della fotografia. è nata così la Qilu International    Photography Week.

Quest’estate, ad Arles in Provenza, ho avuto l’opportunità di mostrare i miei lavori ai due responsabili per la selezione degli autori occidentali da ospitare in Cina, fra cui Ren Shugao. Mi sono perciò ritrovato a Pechino il 20 di settembre, “graziosamente” invitato assieme ad altri 8 fotografi fra cui il presidente della PPA (Professional Photographic Association degli USA) e un suo collega; Serge Assier, fotogiornalista francese; il direttore e vice della rivista francese Phot’Art International; Christian Devers, un Belga specializzato in fotografia digitale; il bravo fotografo inglese Paul Kenee e il nostro simpatico Silvano Monchi, accompagnato dalla moglie, per incominciare la visita di una parte dell’immenso Paese.

Siamo stati trasferiti, via aerea, da Pechino a Jinan, lontana 400 km, per poi continuare il viaggio in pullman, ospitati in alberghi di lusso.
Le giornate, lunghe 16 ore, ci hanno permesso di conoscere vari aspetti della Cina spesso in drastica opposizione: il cantiere dei prossimi giochi olimpici, vero formicaio brulicante di centinaia di migliaia di operai, assieme ai luoghi di nascita di Mo-Tse e Confucio, villaggi modesti, spersi in mezzo alle montagne. Nell’occasione, si passava da uno smog da tagliare col coltello ad un’aria decisamente campagnola, dall’asfalto polveroso ai sottoboschi, pieni di scorpioni.

Le nostre giornate erano marcate da cene esotiche quanto abbondanti, offerte dalle più alte autorità politiche. Con naturalezza, la tartaruga bollita veniva proposta accanto a cicale arrosto, pelle di pesce in gelatina o zampe di gallina affumicate.
L’anitra laccata seguiva la carpa con maiale, pare piatto favorito di Mao, e il tè verde era dimenticato a forza di decine di “kampei” con birra o vino, l’obbligatorio e cerimonioso brindisi adattato a qualunque argomento.

La mostra a Jinan ci ha lasciato senza fiato: 18.000mq e migliaia di immagini, l’Italia era rappresentata dalle 40 immagini di reportage di Silvano Monchi, dai miei 35 nudi in bianco e nero stampati in loco 1 x 0,8m, assieme alle immagini naturalistiche della lega fotografica italiana ed alle singole immagini di Giuricin, Tomelleri, Cartoni, Materassi e Calosi.

Ogni autore invitato all’inaugurazione vedeva le sue immagini esposte su circa 30 metri di parete con tanto di presentazione e ritratto.  La fotografia cinese non ha molto da invidiarci sia dal punto di vista artistico che tecnico. Spazia, senza timori di fare brutta figura, dal descrittivo all’artistico, in b\n  o a colori, dall’immagine classica di Lu Jun a quella con divertenti sovrapposizioni grafiche di Mu Tangjuan, senza dimenticare le inquadrature paesaggistiche concettuali di Li Ruiyong.

Insomma un bel confronto che toglie ogni ombra di confine qualitativo fra le nostre civiltà.

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Uno sguardo al far east…

Trovo che il cinema, congiuntamente alla letteratura o alla musica, sia uno dei modi più semplici ed interessanti per chi si voglia avvicinare, con le debite contestualizzazioni e limitazioni, alla cultura del “centro del mondo” (“Cina”, in cinese). Nel gran clamore che il “fenomeno Cina” sta suscitando a livello mondiale, spesso ci si sofferma molto sugli aspetti e peculiarità socio-politico-economiche che quell’immenso Paese sta mostrando e forse meno o troppo poco sul fermento culturale -intrisecamente correlato alle prime- che da lì muove. Tra le più popolari e potenzialmente “sovversive” espressioni di tal stampo uno spazio rilevante lo ha la cinematografia asiatica -e cinese- moderna.
Quando si parla di cinema cinese è inevitabile allargare il campo ad una moderna “filmografia d’area” (un po’ come possiamo parlare, con molte approssimazioni, di “cinema europeo”), perché è fuor di dubbio che essa scaturisca e sia strettamente correlata con le esperienze provenienti dai paesi confinanti con la Cina.
È fuor di dubbio che oggi (inteso come “da una ventina d’anni”) nascano in tale contesto geografico realtà e personalità molto interessanti e che esse stiano acquistando anche da noi (pur con enormi difficoltà distributive) un progressivo spazio di visibilità ed interesse, fino a qualche anno fa difficilmente apprezzabili.

Un contributo non da poco a tale “sdoganamento” va certamente riservato al “Far East Film Festival” di Udine, che ormai da 7 anni a questa parte raduna nella nostra area cineasti ed appassionati del settore, ma anche l’apertura della 62esima Mostra del Cinema di Venezia con “Seven Swords” del “mitico” Tsui Hark (da più periodici frettolosamente definito “lo Spielberg cinese”) e l’assegnazione della direzione artistica della stessa ad un sinofilo come Marco Müller, sono indubbiamente uno specchio dei tempi.