Archivio di: Dicembre 2007

0

Metti una mattina a scuola…

Riceviamo e volentieri pubblichiamo…

7:55. prima campanella. Ancora nessuno all’orizzonte. 8:00. Seconda campana. Una mandria di giovani colorati si riversa in classe, sulle spalle l’Eastpack, in mano l’amato espresso della macchinetta.
Tra i visi assonnati si può già scorgere il terrore del compito della quinta ora, quel terrore che si prova quando si sa di non sapere.

Per fortuna a scuola, almeno in quella, ci si aiuta ancora.
Un matematico impertinente spiega ad un capannello di compagni la formula della circonferenza; un altro decanta Parini; una compagna declina gli aggettivi in tedesco.
Pian piano le menti si animano, i pensieri cominciano a vorticare sempre più veloci.
Le matite fremono, i cancellini indugiano; si pongono domande, si danno risposte.

Oggi in Italia è successo qualcosa di importante. Allora si alzano le mani, i toni si scaldano, sbuffi salgono qua e là come i vapori di una locomotiva; non è vero che ai giovani italiani la politica non interessa; noi ne parliamo eccome. Purtroppo però non se ne capisce granché…

Le lezioni vanno avanti, alcune lente, altre veloci. Ora a scuola si può ridere. Si ride di una battuta di un compagno, del nome assurdo di qualche filosofo medioevale, della bidella che entra correndo. Però si ride. Lo trovo molto bello.

Suona la 5°ora. Dalla retrovie si alzano scongiuri alla martire via, si implora pietà. Nulla da fare: questo compito s’ha da fare.
Le teste si chinano. Ci si avvicina più che si può per farsi coraggio e copiare quella data lì.

Scriviamo, sempre più veloci scriviamo. A volte, scriviamo per quei professori per cui abbiamo passato pomeriggi interi a studiare, per quei professori che ti fanno stare in bilico sulla sedia perché ciò che stanno facendo non è propinarci dati di carta bensì regalarci il loro sapere nella miglior confezione possibile.

Suona. Si consegna.
Si infilano i cappotti le cartelle si chiudono.
La mandria di giovani dai sogni troppo grandi se ne va.
Senza chiudere la porta.

Sara Andreini

[print_link]

0

La ciàmbara dei nùvis (la stanza da letto degli sposi)

Torniamo ancora una volta indietro nel tempo, per l’esattezza al 1930, alla casa-tipo di quegli anni e ai suoi abitanti. Ci troviamo i nonni, gli zii, i figli e i figli dei figli…
Le figlie femmine, sposandosi uscivano di casa, i maschi invece portavano in casa le proprie mogli e avevano il diritto ad avere una camera tutta per loro, una vera conquista, visto che fino a quel momento erano vissuti in promiscuità con fratelli e cugini.

Che meraviglia, ai miei occhi di bambina, quella stanza! Ecco il bel comò, sormontato dalla specchiera, spesso intarsiata con gusto, sul cui ripiano faceva bella mostra di sé la sveglia regalata il giorno delle nozze dalla “santola” di Cresima, con accanto il carillon con la ballerina che danzava, danzava… il tutto appoggiato su un centrino ricamato ed inamidato.

Non mancava poi l’armadio a due ante (solo pochi fortunati lo avevano a tre), che bastava per i vestiti di tutte le stagioni, di marito, moglie e figli e di cui si sfruttava ogni angolino; se serviva, si aggiungevano sopra due o tre cestini o scatole o una valigia. A completare l’arredamento della stanza c’era la toeletta, bellissima, con la sua specchiera, dove ci si poteva vedere quasi per intero. Anche qui, sul ripiano c’era un centrino, e posate sopra, a mo’ di cimelio, la spazzola ed il pettine con il  dorso e il manico di madreperla e, a completare l’incanto, la boccetta di profumo, in vetro lavorato con il suo bel spruzzatore a pompetta, e la scatola del borotalco con il piumino.

Tutti quei tesori erano lì, bene in vista, ed esercitavano su noi bambine una attrazione irresistibile; ma guai a toccarli, fioccavano minacce terribili (ti tai la man!). A completare l’arredamento due sedie in legno verniciato con sedili imbottiti e, a lato del letto, corredati di acquasantiera, i comodini, che nascondevano il vaso da notte.

Il letto poi, grande… immenso, con le sue reti di ferro, un materasso di crine e uno di piume d’oca, le lenzuola ricamate, bianche, la trapunta invernale, quasi sempre color oro e, a ricoprire tutto, quei meravigliosi  copriletti bianchi damascati e con le frange, che si usavano solo quando arrivava il dottore, o dopo il parto, perché in quella camera si snodava la storia della famiglia: qui avvenivano le nascite, si curavano le malattie, si tenevano i colloqui importanti tra i coniugi, ci si congedava dalla vita.

Sopra la testiera del letto era appesa l’immagine della Sacra Famiglia, da cui pendeva un rametto di ulivo benedetto,o la fotografia, ritoccata, degli sposi ed esse, avevano per noi lo stesso fascino di un dipinto. In un angolo poi c’era il portacatino, con la sua brocca, il portasapone, dove era adagiata la saponetta profumata che quasi consumavamo a furia di annusare, e l’asciugamano bianco con le frange.

Quando arrivava il primo figlio, entrava a far parte dell’arredamento della camera  anche la culla, che poi rimaneva lì per un bel po’ d’anni, visto che ogni due nasceva un bambino.
Ad illuminare il tutto il lampadario, costituito da un piatto ricoperto da un centrino quadrato, ricamato finemente dalla sposa, con una apertura laterale per favorire le operazioni di cambio e pulizia. Questa luce, perlopiù fioca, dava la giusta penombra e conferiva intimità alla stanza, custodita dalla porta che aveva anche una sua funzione supplementare, quella di appendiabiti.

Quante storie da raccontare dietro quella porta, che chiudeva fuori il resto del mondo: l’emozione spesso imbarazzata degli sposi, quasi due sconosciuti, la prima notte di matrimonio, le speranze per i figli, la fatica del vivere quotidiano, la tristezza ed il pianto disperato quando lui partiva per la guerra, la gioia liberatoria per il suo ritorno, il paziente ritorno alla quotidianità… una stanza, mille sentimenti.

Ed era questo il patrimonio segreto della camera degli sposi, una sola, per tutta la vita; potevano cambiare casa, ma la camera rimaneva sempre quella.

[print_link]

0

Tiziano: ultimo atto

Dal 15 settembre 2007 al 6 gennaio 2008 a palazzo Crepadona a Belluno si tiene la mostra “Tiziano: ultimo atto”, in cui la città rende omaggio al suo artista più illustre, il genio della pittura rinascimentale nato a Pieve di Cadore e qui tornato proprio negli ultimi anni della sua lunga vita, quando i grandi d’Europa si contendevano le sue opere ed egli aveva deciso di riorganizzare la propria bottega tra Venezia e Pieve di Cadore.
Ultimo atto perché quest’esposizione si concentra sugli ultimi anni di vita del pittore. La mostra infatti inizia con il documento che attesta la morte di Tiziano.
Interessante è capire il motivo di questa scelta; è molto semplice: nell’ultimo periodo lo stile di Tiziano cambia radicalmente e cambia radicalmente anche il suo modo di vedere la vita .

Per capire meglio bisogna partire dall’inizio; la pittura di Tiziano affonda le sue radici nella pittura tonale veneziana, il pittore è infatti allievo a Venezia di Gentile e Giovanni Bellini e si avvicina infine a Giorgione, accanto al quale è impegnato nel 1508 nella esecuzione degli affreschi del Fondaco dei Tedeschi. Mostra subito segni di indipendenza nei confronti dei suoi maestri, pone a frutto la calma e ferma partitura cromatica di Giovanni Bellini e la modulazione dei toni di Giorgine, attinge un’intensità di colore steso in dinamici contrasti di piani larghi, con la quale afferma una chiarezza nella definizione dei corpi e delle espressioni. Nell’esecuzione (1516-1518) dell’Assunta dei Frari, la sua prima clamorosa affermazione pubblica, esprime carica vitale dei toni ed esprime la visione di un mondo di bellezza armoniosa nel pieno del suo rigoglio e in gara esaltante con la natura.
Da questo momento in poi la sua fama cresce ed entra in rapporto con le più illustri corti italiane. Colore e luce: sono questi i due elementi fondamentali e il segreto dell’arte di Tiziano, in gioventù come in vecchiaia; Tiziano usa il colore come materia che “fa” il quadro.

La pittura degli ultimi anni si differenzia perché vi è una resa dei conti con la vita. Tiziano ha un’interpretazione non più armonica ma drammatica della realtà, di un’inquietudine spirituale che prima non turbava la sua visione limpida e serena dei destini umani.

Una densità materica che invade la scena e riempie gli spazi; una pennellata grossa e sporca; una luce particolare e intensa si sostituisce alla maniera luminosa e tonale del periodo giovanile. Tiziano giunge così alla disgregazione del tessuto disegnativo e plastico delle figure, attraverso un personalissimo e impegnativo modo di dipingere che lo vede tornare e ritornare sulle sue opere, alla ricerca di un’intensità psicologica prima impensabili.

Ecco la nuova poetica di Tiziano. Il suo ultimo atto.

Come uno scultore che modella la creta, lui stende sulla tela i pigmenti con i polpastrelli; lavora con guizzi di luce che vibrano da dentro il quadro; non definisce le forme e dà un ricercato senso di incompiutezza, quasi ad esprimere l’angoscioso interrogativo del suo animo insoddisfatto, fino all’abbandono di ogni naturalismo.
Restano solo il sentimento, la segreta partecipazione emotiva, i bagliori di un artista disincantato di fronte alla morte.

Per maggiori informazioni: www.tizianoultimoatto.it

[print_link]

Tag: ,
0

Mille anni di storia e arte nelle chiese di Venezia, maggio-ottobre 2007

Luisella, Gioia e Gigliola sono sempre “a caccia” di idee e iniziative da proporre ai propri amici e soci.
Immagino che durante una delle loro riunioni serali del martedì Gioia abbia lanciato la proposta di organizzare una serie di uscite giornaliere a Venezia per visitare le chiese del “circuito Chorus”.

Gioia da tempo collabora con “Dimensione Cultura”, la mia associazione che ha sede a Concordia Sagittaria, ed ha pensato di coinvolgermi nell’iniziativa sapendo che da qualche anno sono impegnata nello studio dell’immenso patrimonio storico-artistico della Serenissima Repubblica veneziana.
Una volta steso il calendario e sottoposto all’attenzione dei soci sono arrivate subito le adesioni. Tutto confermato: si faranno quattro uscite il sabato a partire dal mese di maggio, per concludere ad ottobre.
“Chorus” è un’associazione veneziana impegnata nella gestione e valorizzazione di alcune delle più importanti chiese di Venezia.

Sono ben sedici gli edifici sacri compresi nel “circuito Chorus”: noi li abbiamo divisi con un criterio territoriale, nei sestieri veneziani. Le nostre uscite infatti non hanno avuto solo lo scopo di conoscere le chiese, ma sono state anche l’occasione di passeggiare con tranquillità, tra amici, per chiacchierare e gustare angoli veneziani più o meno conosciuti.

Sabato 19 maggio ci siamo trovati alla stazione ferroviaria di Portogruaro per partire insieme. Dopo una prima fase di presentazioni e di “controlli” da parte di Luisella, perfettamente organizzata nella gestione di biglietti e prenotazioni, siamo partiti per la nostra avventura…
Le chiacchiere piacevoli durante il viaggio in treno mi hanno permesso di conoscere l’associazione “La Ruota” e di cominciare ad entrare in confidenza con il gruppo; una confidenza che è diventata amicizia nel corso delle successive uscite.

Durante la prima escursione non abbiamo camminato molto in quanto le quattro chiese visitate sono le più significative del sestiere di Cannaregio.

La rinascimentale San Giobbe che custodisce un’opera unica nel suo genere a Venezia: la cupola in terracotta della cappella Martini realizzata dal toscano Luca della Robbia.

La chiesa di Sant’Alvise esempio di architettura gotica conventuale e custode di tre importanti opere di Giambattista Tiepolo con scene della passione di Cristo.

La terza tappa ci ha portato alla chiesa della Madonna dell’Orto, non lontano dalle Fondamenta Nuove affacciate sulla laguna nord; si tratta di uno degli esempi più celebri dell’architettura gotica veneziana e la sua fama è ulteriormente accresciuta dalle opere pittoriche che conserva. Credo che il dipinto più emozionante sia l’enorme pala di Jacopo Tintoretto con la Presentazione della Vergine al tempio, dai caldi e vibranti effetti luministici.

Dopo il momento conviviale del pranzo, una breve camminata ci ha portato di fronte alla chiesa di Santa Maria dei Miracoli, uno splendido scrigno rivestito di marmi policromi e raffinate sculture: indubbiamente uno dei massimi esempi di architettura rinascimentale realizzati in città dalla bottega dei Lombardo, architetti e decoratori del secolo XV.

Il gruppo degli appassionati si è ripresentato puntuale sabato 16 giugno, ancora ignaro della lunga passeggiata che avrebbe fatto.

Arrivati alla chiesa di Santo Stefano, abbiamo potuto osservare solo l’esterno dell’edificio in quanto stava per iniziare la celebrazione di un matrimonio. Siamo comunque entrati per la visita dell’interno nel corso dell’uscita di ottobre: non potevamo tralasciare la sagrestia della chiesa con le tele di Jacopo Tintoretto.

Dopo aver fatto tappa nella chiesa di Santa Maria del Giglio, fastoso esempio di architettura barocca del XVII secolo, un altro matrimonio ci ha bloccato all’ingresso della chiesa di Santa Maria Formosa. Nessun problema, abbiamo continuato la camminata fino all’isola di San Pietro di Castello, all’estremità est di Venezia per visitare l’omonima chiesa, importante nella storia della città in quanto è stata per secoli sede vescovile. E’ piaciuta l’atmosfera del sestiere di Castello, che alcuni non conoscevano, in quanto meno turistico e più “veneziano”.

Dopo la pausa pranzo conclusa con un fresco gelato, invece di rientrare con il vaporetto come previsto, ci siamo rimessi in marcia per fare di nuovo tappa, sulla via del ritorno, a Santa Maria Formosa, una delle opere architettoniche più celebri dell’architetto rinascimentale Mauro Codussi.

L’escursione fatta alla fine di settembre è stata la più impegnativa, per il numero e per l’importanza delle chiese.

Dopo un caffé ed una breve camminata siamo entrati nella chiesa di San Giacomo dell’Orio per ammirare in particolare il ciclo realizzato Jacopo Palma il Giovane nella sacrestia vecchia.

0

35 scatti per 10 giorni in Cina: “Qilu International Photography Week”

Circa 2300 anni fa, in Cina, viveva un certo Mo-Tse.  Ricercatore ed inventore, scrisse un libro (Mo Jing) che conteneva il risultato delle sue osservazioni. Quest’anno, la Cina attraverso l’APS (Artistic Photographic Society of China) ha voluto rendere omaggio a quel personaggio che, in sostanza, ha scoperto il principio della fotografia. è nata così la Qilu International    Photography Week.

Quest’estate, ad Arles in Provenza, ho avuto l’opportunità di mostrare i miei lavori ai due responsabili per la selezione degli autori occidentali da ospitare in Cina, fra cui Ren Shugao. Mi sono perciò ritrovato a Pechino il 20 di settembre, “graziosamente” invitato assieme ad altri 8 fotografi fra cui il presidente della PPA (Professional Photographic Association degli USA) e un suo collega; Serge Assier, fotogiornalista francese; il direttore e vice della rivista francese Phot’Art International; Christian Devers, un Belga specializzato in fotografia digitale; il bravo fotografo inglese Paul Kenee e il nostro simpatico Silvano Monchi, accompagnato dalla moglie, per incominciare la visita di una parte dell’immenso Paese.

Siamo stati trasferiti, via aerea, da Pechino a Jinan, lontana 400 km, per poi continuare il viaggio in pullman, ospitati in alberghi di lusso.
Le giornate, lunghe 16 ore, ci hanno permesso di conoscere vari aspetti della Cina spesso in drastica opposizione: il cantiere dei prossimi giochi olimpici, vero formicaio brulicante di centinaia di migliaia di operai, assieme ai luoghi di nascita di Mo-Tse e Confucio, villaggi modesti, spersi in mezzo alle montagne. Nell’occasione, si passava da uno smog da tagliare col coltello ad un’aria decisamente campagnola, dall’asfalto polveroso ai sottoboschi, pieni di scorpioni.

Le nostre giornate erano marcate da cene esotiche quanto abbondanti, offerte dalle più alte autorità politiche. Con naturalezza, la tartaruga bollita veniva proposta accanto a cicale arrosto, pelle di pesce in gelatina o zampe di gallina affumicate.
L’anitra laccata seguiva la carpa con maiale, pare piatto favorito di Mao, e il tè verde era dimenticato a forza di decine di “kampei” con birra o vino, l’obbligatorio e cerimonioso brindisi adattato a qualunque argomento.

La mostra a Jinan ci ha lasciato senza fiato: 18.000mq e migliaia di immagini, l’Italia era rappresentata dalle 40 immagini di reportage di Silvano Monchi, dai miei 35 nudi in bianco e nero stampati in loco 1 x 0,8m, assieme alle immagini naturalistiche della lega fotografica italiana ed alle singole immagini di Giuricin, Tomelleri, Cartoni, Materassi e Calosi.

Ogni autore invitato all’inaugurazione vedeva le sue immagini esposte su circa 30 metri di parete con tanto di presentazione e ritratto.  La fotografia cinese non ha molto da invidiarci sia dal punto di vista artistico che tecnico. Spazia, senza timori di fare brutta figura, dal descrittivo all’artistico, in b\n  o a colori, dall’immagine classica di Lu Jun a quella con divertenti sovrapposizioni grafiche di Mu Tangjuan, senza dimenticare le inquadrature paesaggistiche concettuali di Li Ruiyong.

Insomma un bel confronto che toglie ogni ombra di confine qualitativo fra le nostre civiltà.

0

Federico Tavan

Maledeta chê volta

Maledeta chê volta
ch’ài tacât a scrîve
no parceche
al é mal scrîve
ma parceche
era maledeta chê volta
che ère belsoul
e vaîve
e par chist
‘e scrivêve.

Maledetta la volta

Maledetto il giorno/in cui ho cominciato a scrivere/ non perchè/ sia male scrivere/ ma perchè/ era un giorno maledetto/ quello in cui ero solo / e piangevo/ e per questo/ scrivevo.

Ninuta

Lu farêstu l’amour
cu li mê poesies ?
Cuala te plàse de pì ?
Cun cuala te plasarèssal
zî pì volanteir a liet?
Cuala al gjolde
cuala no postu fâ de mancu,
cuala da nicjulâ
coma un orsut de piecja
o da portâ al mar dentre na valisuta ?
Cuala da mostrâ a li amighes?
Cuala da carecjâ cuala da bussâ ?
cuala un ditalìn cuala’na picjàda
de nascondon. Ninuta
favelanse clâr
me soi rot li bales.

Ragazzina

Lo faresti l’amore/ con le mie poesie?/ Quale ti piace di più?/ Con quale ti piacerebbe andare più volentieri a letto?/ Quale  il godere/ quale non puoi farne a meno,/ quale da cullare/ come un orsacchiotto di pezza/ o da portare al mare dentro una valigetta?/ quale da mostrare alle amiche?/ Quale da accarezzare quale da baciare/ quale un ditalino  quale un pizzicotto/ di nascosto. Ragazzina/ parliamoci chiaro/ mi sono rotto le scatole.

da: “Augh!” – Edizioni biblioteca dell’immagine – Circolo culturale Menocchio

[print_link]

0

Delle “invasioni barbariche” (ovvero, nuove forme di povertà)

Essendo donna e lavoratrice (pensate quante cose si possono fare a questo mondo) ogni mattina inforco la mia utilitaria, vado al lavoro e accendo la radio, tanto per non prender sonno al primo semaforo.

L’altro giorno, una botta di vita. Dal profondo del mio stadio larvale, sento una notizia effetto sveglia. Un intelligentone, pare pure al governo del suo territorio, dice che per ogni torto subito da un cittadino italiano, dieci extra comunitari dovrebbero venir puniti (mancava solo un “Ja wohl!” per connotare meglio il suo intervento).

In un primo momento resto allibita, dopo penso se indignarmi o no, perché esternazioni del genere non si dovrebbero neppure commentare, visto che non han senso di esistere. Poi, quando nei successivi tre chilometri rischio di tamponare più volte l’auto di fronte a me, decido di indignarmi: riguardo certe cose non si può far finta di niente. Toccano corde profonde nel cuore e nel cervello.

Mi lascio quindi andare ad alcune riflessioni di tipo politico (ma chi l’avrà scelto questo individuo?), religioso  (non esiste una giustizia divina che fulmini all’istante chi proferisca parole del genere?) e legale (non esistono i crimini umanitari?).

Secondo questa corrente di pensiero dobbiamo guardarci dalle invasione del barbaro straniero. Siamo forse alle soglie di un nuovo Medioevo? L’impero sta andando a rotoli? Meno male che c’è chi ci illumina, ci protegge e ci guida. E soprattutto trova capri espiatori.

Crolla l’economia? Colpa dei cinesi. Aumenta la criminalità? Colpa degli albanesi e rumeni. La famiglia va a catafascio? Colpa degli omosessuali. Si surriscalda il pianeta? Colpa degli eschimesi….
Caro amico della porta accanto, guarda che c’è qualche cosa che non va. Troppo facile e comodo cadere in queste mistificazioni. Non offendiamo l’intelligenza delle oneste persone. Andiamo oltre.
Viviamo sicuramente nella società del benessere, ma siamo molto vulnerabili sul piano dell’educazione emotiva. Percepiamo forme di malessere intorno a noi, c’è carestia di valori, di significati e di sicurezze. In questo senso sì ci troviamo di fronte ad un nuovo Medioevo e posso capire che, come le streghe all’epoca, si cerchino i responsabili in chi è più esposto ed emarginato; ciò accade perché sta emergendo una nuova forma di povertà non economica ma più pericolosa: quella emotiva, relazionale e culturale.

La fiducia nell’altro è lacerata perché si sono interrotti i canali comunicativi più importanti, cioè quelli che si basano sul concetto di accettazione; manca la volontà di rispettare come interlocutore chiunque, soprattutto chi è diverso, perché riconoscere i bisogni degli altri, significa ridimensionare i propri. Si è stabilita invece una relazione basata sull’imposizione di autorità e forme di potere  in risposta ad episodi di violenza che comunque vanno condannati. Ma chi delinque lo fa perché assume comportamenti errati e non perché è cinese, albanese, rumeno, omosessuale o, peggio ancora, eschimese.

I conflitti vengono risolti trincerandosi in biechi meccanismi di difesa come l’accusa o la generalizzazione reciproche, non si accetta più la mediazione che salva e dignifica le individualità a confronto.

E perché?

  • E’ difficile comunicare perché significa uscire dal proprio egocentrismo.
  • E’ difficile comunicare perché le proprie sicurezze entrano in crisi.
  • E’ difficile comunicare perché significa cambiare, cosa che all’essere umano costa fatica e frustrazione.

Perciò quando sentiamo certe “sentenze” dette, fatte, mostrate ogni giorno in ogni luogo, non affrontiamole con superficialità o peggio indifferenza. Indignamoci, perché l’indignazione viene da dentro ed è solo dentro di noi che possiamo trovare  gli strumenti per modificare le cose.

Come ha detto di recente qualcuno che di questo se ne intende: “il vero nemico non è molto lontano, spesso è seduto sul divano di casa tua … e non ha gli occhi a mandorla”.

[print_link]

0

Orietta Celant

Celant Orietta, via Bagnarola 13, Bagnara, pittrice; queste le scarne informazioni a mia disposizione, attinte dal depliant della mostra d’arte tenutasi a settembre a Gruaro, quando ho chiesto di incontrarla per questa nostra rubrica. E’ stato un po’ un appuntamento al buio il nostro, ma non sono certo rimasta delusa. Orietta si è raccontata con grande trasporto e sincerità, parlandomi di sé, del suo percorso artistico, dei suoi progetti ed aspirazioni.

Mi ha ricordato di come la sua passione per la pittura risalisse ai tempi della scuola media, frequentata a Cinto Caomaggiore, di cui è originaria, di come avrebbe voluto intraprendere studi di tipo artistico, ma di come questo, per una serie di circostanze, non fosse stato possibile, e di come molti la esortassero a tenere i piedi per terra, per cui lei, sia pure a malincuore, aveva dovuto cedere e aveva ripiegato su un’altra passione, quella di riserva, lo stilismo. Ecco quindi la scuola professionale per stilista di moda, accompagnata dallo studio della tecnica sartoriale, proprio per dare concretezza alla sua formazione.

Conseguita la maturità professionale, le prime esperienze di lavoro, una in particolare, nel campo dell’alta moda, che, a suo dire, le ha insegnato molto, le ha aperto la mente e le ha dato la possibilità di affinare il suo gusto e l’ha spinta a proseguire gli studi a Treviso, dove ha conseguito il diploma di stilista.
E’ un periodo questo che Orietta ricorda con piacere e che l’ha avvicinata al suo sogno di sempre: frequentare l’Accademia delle Belle Arti, sogno accarezzato ancora oggi e che prima o poi, vista la determinazione, lei si è impegnata a realizzare. “Non mollo…” ripete a questo proposito. Apre poi una sua sartoria che le dà molte soddisfazioni… “ma -dice Orietta- avevo sempre voglia di pittura che alimentavo, visitando tutte le mostre che potevo, anche se il desiderio di fare precedeva e superava l’esigenza di conoscere e di capire.”

Il matrimonio e la nascita dei figli segnano una pausa nel suo impegno lavorativo, ma la convincono al tempo stesso che dipingere per lei è vitale e cerca quindi, nei ritagli di tempo (“ancora adesso- dice- dipingo soprattutto di notte”) di “rinfrescare” il suo senso del colore, frequenta così alcuni corsi di pittura, come quelli tenuti dai maestri Mario Pauletto e Igea Lenci Sartorelli e partecipa a varie mostre, a livello amatoriale, che le danno la carica perché trova “stimolanti queste occasioni in cui c’è qualcuno che parla di te, cerca di entrare nella tua opera, di capire”.

Nel frattempo matura una sua scelta, per quanto riguarda il soggetto da rappresentare  nei suoi quadri: il suo interesse è tutto per la figura umana, in particolare quella femminile, perché, secondo lei, più complessa, con mille sfaccettature e possibilità interpretative, un mix di forza e di debolezza insieme. Riassume tutto questo, in una sorta di manifesto personale della sua poetica, in uno dei primi quadri “Il tramonto”, ispirato alla figura della madre e ad alcune tappe della vita di lei, sintetizzate con amore e sofferenza. Se le si chiede quale sia la tecnica preferita, lei, premesso che nella tessitura di un quadro considera fondamentale il disegno, i cui tratti rimangono spesso visibili nei suoi quadri, risponde che naturalmente, accanto alla matita, c’è l’olio, che dice di adorare.

Quanto al modo di procedere, aggiunge che a volte dipinge di getto, altre volte più meditatamente, a seconda degli stati d’animo e sottolinea che è essenziale per lei esprimersi con modalità diverse.
Ancora una volta, al momento di congedarci, ribadisce che la pittura è un punto fermo della sua vita, che essa ha avuto una funzione consolatoria in tanti momenti difficili e che rimane un obiettivo non certo raggiunto, ma da perseguire con tenacia e da cui si sente attratta istintivamente con forza.

[print_link]

0

Pensiamoci su!

Ho letto, su un settimanale, un interessante articolo di Maria Grazia Meda, che affronta il discorso della responsabilità personale, così come è avvertito oggi, in particolare in Italia e in America, ed il quadro che ne esce è preoccupante e desolante insieme, confermato da quanto noi viviamo nella quotidianità.

“Fumo? Colpa dell’industria del tabacco. Ingrasso? Colpa del fast food. Non studio? Colpa del prof. Psicologi e sociologi lanciano l’allarme. Si sta affermando una cultura dove nessuno si assume più responsabilità”.

Questa la tesi fatta propria dalla giornalista, che cita, sull’argomento, tutta una serie di studi di autorevoli studiosi, tra i quali François Ewald, docente al Conservatoire national des arts et metiers, che sottolinea come nella società globalizzata, con le sue interdipendenze di merci, uomini, informazioni che circolano liberamente, “le decisioni e le responsabilità siano atomizzate e sia lasciato all’individuo un margine d’azione e quindi di responsabilità ridotte…”.

Nasce da qui una sensazione di impotenza, di inadeguatezza a fronteggiare una realtà così complessa che finisce per spingerci a limitare al massimo il rischio o addirittura ad eliminarlo, il che è, continua la giornalista, citando Miguel Benasayag, autore di “Utopia e libertà”, pericolosamente illusorio, perché una vita senza rischi è impossibile. E immaginare che lo sia, pur nella sua impossibilità, ha conseguenze nefaste: aumentano la violenza, l’intolleranza, la depressione e la paura.” È la fotografia del momento che stiamo vivendo!

La Meda indica poi questo rifiuto della corresponsabilità come una “nuova malattia sociale che si manifesta dall’infanzia, quando ogni persona deve essere protetta da tutto” con il risultato che questi ragazzi, non abituati a prendersi le loro responsabilità , diventeranno, da grandi, “fragili e insicuri”.

Che fare? Non abbiamo certo noi la ricetta sicura, ma si potrebbe incominciare con il ripensare, prima di tutto, ai nostri comportamenti di adulti: non limitarci ad essere meri esecutori di ordini, (button pushing, come si dice nel linguaggio tecnologico), responsabili solo nei confronti di un superiore, ma prendere delle decisioni, assumendosene rischi e responsabilità, e nell’ambito della sfera personale, educativa, sociale; insistere nuovamente sul binomio indissolubile diritti-doveri, o meglio, come dice Michele Serra, “desideri e il loro limite”; accettare la sfida di questa scelta e attendere, pazientemente ma non fatalisticamente, i risultati.

da “Gioventù a rischio zero” di Maria Grazia Meda, L’Espresso n°49 del 13/12/2007

[print_link]

0

Bagnara

  • BAGNARA: frazione del comune; il nome deriva dal latino “balnearia – bagni, luoghi paludosi”. Esso caratterizzava un territorio paludoso attraversato da numerosi corsi d’acqua ben più consistenti di quelli attuali.
    La struttura geomorfologia del terreno conferma la presenza di affioramenti ghiaiosi oltre ad avvallamenti di chiara origine fluviale. Un’ulteriore conferma, che interessa il nome Bagnara, è la presenza a poca distanza del paese, di Bagnarola. Recenti ipotesi hanno infatti correlato le due località classificandole tra le numerose coppie toponimiche presenti nelle vicinanze.
  • Via Alessandro Manzoni: scrittore italiano (Milano, 1785 – 1873). Figlio del conte Pietro e di Giulia Beccaria.
    Per dissidi fra genitori, il Manzoni fu educato in vari istituti religiosi. L’influenza delle tradizioni familiari e le tristi esperienze scolastiche lo avvicinarono alle idee della Rivoluzione francese. Il periodo tra il 1805 e il 1810 trascorso a Parigi presso la madre, fu molto importante per la sua formazione anche spirituale. Il matrimonio con Enrichetta Blondel, giansenista, lo porterà successivamente, alla conversione al  cattolicesimo.
    La produzione cristiana inizia con gli “Inni sacri” con cui il poeta voleva esaltare le maggiori festività della Chiesa. Seguirono le tragedie “Il conte di Carmagnola” e “L’Adelchi” in cui, di fronte all’ingiustizia terrena, l’uomo si deve affidare alla volontà misericordiosa di Dio. A questo tipo di riflessione appartiene anche l’ode “Il cinque maggio” scritta per la morte di Napoleone.
    “I Promessi sposi” rappresentano il compimento di tutto il suo percorso interiore e letterario.
    La loro complessa struttura narrativa può considerarsi il risultato di quella esigenza di verità e di sentimento religioso che  caratterizza l’uomo e che permea tutta l’opera. L’ultima stesura del romanzo fu pubblicata a dispense fra il 1840 e il 1842. Successivamente il Manzoni si occupò soprattutto di questioni linguistiche in cui cercò di difendere e imporre anche nella pubblica istruzione il modello fiorentino che considerava più adatto all’unificazione italiana.
    La sua vita privata non fu molto felice, rattristata dalla morte in giovane età, della moglie Enrichetta e da gravi problemi familiari. Si risposò nel 1837 con Teresa Borri. Nominato senatore del regno partecipò al voto con il quale si trasferiva la capitale da Torino a Firenze: era sempre stato contrario al potere temporale dei papi. Incontrò Cavour, Garibaldi, Verdi, Vittorio Emanuele e Margherita di Savoia; da tutti era stimato per la sua integrità morale e il suo moderatismo. Morì a Milano il 22 maggio 1873.