La nostra economia è così legata al mondo che non poteva non essere pesantemente coinvolta da quanto accaduto nel 2008 con la crisi finanziaria e la conseguente caduta della domanda globale (crollo del commercio internazionale, riduzione della produzione), già fiaccata, tra il 2007 e il 2008, dalla crescita vertiginosa dei prezzi delle materie prime.
E’ sufficiente ricordare, per aver un’idea della forza di questi legami, che circa 1/3 di quello che in Italia produciamo viene esportato e, d’altro canto, circa un terzo di quello che utilizziamo per consumi e investimenti viene comprato all’estero (dati Istat, contabilità economica nazionale). E’ come dire che su un ipotetico salario medio di 1.500 euro, 500 dipendono dalla domanda estera di nostri prodotti, e – corrispondentemente – circa 500 euro di quel salario saranno spesi per comprare prodotti e servizi costruiti e pensati all’estero.
La crisi partita da Wall Street è perciò arrivata in pieno e velocemente anche all’economia delle nostre piccole imprese, dei nostri distretti industriali, attraverso le “cinghie di trasmissione”. La prima cinghia è stata la riduzione degli sbocchi per le nostre esportazioni. Veneto e Friuli insieme hanno esportato per 24 miliardi nei primi 6 mesi del 2009 contro i 30 miliardi realizzati nei primi sei mesi del 2008: – 20% (dati Istat, contabilità economica regionale). A funzionare da seconda cinghia sono state le difficoltà di accesso al credito e il mutamento delle aspettative degli imprenditori (che hanno molta meno voglia di investire): ciò ha determinato un forte calo negli investimenti e quindi nella domanda di beni intermedi (da qui la crisi di molte piccole imprese del settore meccanico). Infine anche le imprese che producono per il mercato finale, vale a dire per i consumi finali delle famiglie, hanno dovuto fare i conti con la loro minor capacità di spesa, provocata sia dalla contrazione dei redditi di quelle famiglie (non poche) che hanno dovuto fare i conti con la perdita del lavoro per uno o più dei loro membri, sia dalla diffusione di un clima di preoccupazione per il futuro che ha indotto in molti a preferire il risparmio. Meno export, meno investimenti, meno consumi, vuol dire alla fine meno occupazione.
Rispetto ai livelli complessivi pre-crisi si può stimare che in Veneto e Friuli siano stati cancellati almeno 70-80.000 posti di lavoro, ma solo a fine anno sarà possibile tracciare un bilancio compiuto e sarà assai probabilmente peggiore rispetto a queste stime parziali. Di certo sono stati colpiti, soprattutto nella prima fase, i posti di lavoro nel settore industriale (manifattura e costruzioni): quindi lavoratori maschi e spesso stranieri. Sono aumentati i licenziamenti: nei primi 9 mesi del 2009 oltre 30.000 sono risultati i lavoratori interessati in Veneto e Friuli da un licenziamento (individuale o collettivo) e perciò inseriti nelle apposite “liste di mobilità”: più del doppio rispetto all’anno precedente.
Sono aumentate le sospensioni: nessuno sa di preciso quanti lavoratori in Veneto e Friuli siano stati collocati, per periodi più o meno lunghi, in cassa integrazione, ma si può azzardare una stima, per il 2009, di almeno 100.000 persone (dati Veneto Lavoro).
Che Paese, l’Italia!
Si sta registrando un degrado etico-sociale mai avvertito prima; la nostra Costituzione continuamente calpestata se non violata nei suoi principi fondamentali, democrazia, libertà, uguaglianza che si fondano sulla dignità della persona, di qualunque persona.
Razzismo, omofobia, violenza, bullismo, non rispetto delle regole e dell’ambiente, sembrano aver sostituito senso civico e solidarietà, smentendo la tradizionale accoglienza dimostrata dagli Italiani nel corso della propria storia.
Come mai? Non basta cercare le cause nella crisi economica e neppure dire che è colpa della TV e della stampa. (Certa stampa comunque, non è priva di responsabilità, se pensiamo alle campagne diffamatorie a carico di personaggi più o meno noti!)
Si è parlato tanto dell’esclusione del Crocefisso dagli edifici pubblici e nel contempo la nostra classe politica pare fare un uso spregiudicato di una sottocultura qualunquista e demagogica che sdogana le peggiori istanze di una minoranza razzista, omofoba, xenofoba e violenta.
Giovani dotati, senza prospettive, devono abbandonare l’Italia per potersi costruire un futuro, poiché nel proprio Paese valgono più la raccomandazione, le conoscenze, il nepotismo piuttosto che il talento. Altro che Meritocrazia!
Basta assistere a qualunque “dibattito” politico per capire, anzi non capire in che Paese viviamo! La verità non è mai stata così contraddittoria; tutti sembrano aver ragione e nel contempo avere torto. Eppure la classe politica che ci governa sostiene di agire nell’interesse e nel nome del popolo italiano da cui pare abbia avuto una delega “in bianco”.
Un radicale ricambio dei nostri rappresentanti politici, più lontani dalle ideologie, dai propri interessi e privilegi personali e più vicini agli interessi veri della collettività, forse porterà maggiore fiducia nelle Istituzioni e quindi maggiore partecipazione e consapevolezza della gente al vivere comune.
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