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L’età di Courbet e Monet

A Villa Manin si sta svolgendo una mostra, a mio parere, molto interessante.
Essa ha un preciso obiettivo: mettere a confronto dipinti francesi con quelli di vari paesi dell’Europa, soprattutto dell’Est, evidenziandone legami ed influenze.
Per sviluppare meglio quest’intento la mostra non è stata divisa per nazionalità degli artisti ma per tematiche: 1) boschi e campagne, 2) città e villaggi, 3) acque, 4) nevi, 5) ritratti e figure.
Realismo e Naturalismo prima e l’Impressionismo poi, sono il punto di partenza dell’esposizione, che sottolinea gli spunti che questi movimenti artistici portarono nelle grandi capitali europee come Amsterdam, Berlino, Bruxelles, Monaco, Zurigo, Vienna, Mosca, San Pietroburgo, Varsavia, Praga, Budapest e Bucarest. Queste suggestioni arrivavano in Europa centrale e orientale attraverso viaggi di pittori a Parigi, mostre che portavano nelle città le opere degli artisti francesi, o quadri che venivano realizzati come testimonianza da chi a Parigi c’era stato e voleva trasmettere ciò che aveva visto.
Questo però non significa assolutamente che i pittori francesi siano stati  semplicemente copiati, ci fu invece un vero e proprio dialogo che permise anche alle particolari e affascinanti caratteristiche nazionali di emergere.
L’esposizione, ha, a mio parere, il pregio di rendere affascinante questo viaggio nella pittura europea della seconda metà dell’Ottocento, poiché rende un percorso abbastanza noto, come può essere quello che parte dal Realismo e dal Naturalismo e arriva all’Impressionismo, originale e non scontato. E lo fa esponendo opere di artisti sicuramente poco conosciuti alla maggior parte dei visitatori, che però hanno dato un grande contributo alla pittura, come nel caso di Ensor.
La mostra in sostanza indica quali furono le basi che servirono allo sviluppo dell’Impressionismo.
Esaminiamo le tappe di questo percorso.
Il Realismo parte dal fatto che, a metà dell’800, l’incontrollato processo d’espansione industriale appunta l’attenzione verso nuove tematiche come la natura e la vita quotidiana. Courbet, Daumier e Millet, i maggiori esponenti del Realismo, fanno diventare protagonisti dei loro quadri le classi più umili, cercano di far riflettere sulle conseguenze dello sviluppo industriale e sottolineano che esso non aveva solo aspetti positivi, come si voleva far credere, richiamando l’attenzione ad esempio sulle campagne, che in quel periodo si stavano spopolando.
Il Naturalismo invece parte dal presupposto che il paesaggio elaborato in studio non bastava più. I pittori a poco a poco presero a volere un contatto diretto con la natura, rinnovando la tecnica pittorica per catturare impressioni sempre più passeggere. La scuola di Barbizon ne è l’esempio per eccellenza. Questa iniziò nel 1830 quando in un villaggio, Barbizon appunto, poco fuori da Parigi, vicino alla foresta di Fointainbleau, alcuni artisti cominciarono a dipingere dal vero la natura incontaminata di quei luoghi, seppur ovviamente continuando a perfezionare le loro opere in studio.
Presto la scuola di Barbizon divenne sinonimo di idillio con la natura, dove l’uomo e gli animali vivevano insieme e le persone non erano  contaminate dalla vita della città moderna. Corot, Daubigny, Troyon, Dupré e Rousseau, i maggiori esponenti di questa scuola esprimono nei loro quadri l’intensità delle emozioni che si possono provare davanti a un paesaggio.
Lo sviluppo naturale di questi due movimenti fu l’Impressionismo. Questo movimento continua le ricerche e le sperimentazioni dei primi due arrivando a una pittura completamente nuova, immediata e veloce. Dipingendo “en plein air”, cioè all’aria aperta, i pittori impressionisti capiscono che l’occhio percepisce un insieme di colori che varia con il mutare della luce. Questo portò alla comprensione delle infinite possibilità di dipingere lo stesso soggetto, in base alla diversità di luce e di impressione. La pittura di questi artisti infatti proprio per rendere la complessità di visione che si presentava davanti ai loro occhi, avevano bisogno di alcune tecniche particolari, come l’uso dei colori complementari, l’abolizione dei toni grigi, del disegno e del chiaroscuro. Per questo  motivo i dipinti di Manet, Monet, Degas, Rousseau e di tutti gli esponenti dell’Impressionismo non furono mai accettati dagli esponenti della pittura tradizionale rappresentata dal Salon, ma anzi essi furono derisi quando gli impressionisti organizzarono la loro prima mostra nel 1886 nello studio di Nadar; ed è proprio da un articolo di un critico che nasce il termine “Impressionismo” usato con connotazione dispregiativa.
Qui si conclude il nostro viaggio di introduzione alla mostra, che consiglio caldamente di visitare.

Per ulteriori informazioni: www.villamanin-eventi.it

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Capo Nord

Capo Nord: avrei desiderato arrivarci 30 anni fa in moto: un sogno. Parto per questo viaggio perché ancora oggi mi incuriosisce e mi emoziona l’idea di passare dei giorni senza mai vedere la notte. Sarà un viaggio prettamente naturalistico che si distingue dai miei ultimi viaggi, volti alla conoscenza di popoli e culture.

Il viaggio Venezia-Oslo con scalo a Copenhagen dura circa quattro ore: arrivo ad Oslo alle venti. La temperatura è stranamente di 28 gradi, e alle undici di sera nella capitale norvegese non è ancora buio. Una considerazione arrivando ad Oslo: sono soltanto a metà strada dal punto di arrivo. Oslo è la capitale più antica del Nord Europa. Quasi completamente distrutta durante l’ultimo conflitto mondiale, oggi è una città con 570.000 abitanti sita in fondo ad uno dei fiordi più belli, circondata da isolette e colline ricche di boschi. Ad Oslo si assegna il Nobel per la pace, l’unico Nobel a non venire assegnato a Stoccolma. Visito il parco più importante, il Frogner Park, noto per le sculture di Vigeland; anche se la tappa  più interessante, per uno come me non molto attento all’arte, è la visita al museo dove sono esposte molte tele di importanti pittori. Il più emozionante è senza dubbio “L’URLO” di Munch che da solo può valere il viaggio.

All’indomani, dopo un volo di circa un’ora arrivo a Bodo ed è da qui che la luce avrà la meglio sulle tenebre fino al termine del viaggio. La cosa che più mi colpisce è che nelle ore per noi “notturne” naturalmente non c’è nessuno in giro e sembra di vivere in una città fantasma. Da Bodo prendo il traghetto che mi porta dopo tre ore di navigazione verso l’arcipelago delle isole Lofoten. Il paesaggio durante la navigazione è spettacolare con costiere mozzafiato e picchi incredibili. Sbarco e proseguo per Å un paese con il nome più corto al mondo e il più piccolo delle Lofoten. Un villaggio di pescatori veramente pittoresco con le coloratissime casette in legno color giallo ocra o rosso. C’è una luce particolare, dovuta alla posizione geografica: le Lofoten sono ad una latitudine di 67° nord sopra il circolo polare artico, come l’Alaska e la Siberia ma l’influenza della corrente del golfo ne mitiga notevolmente il clima.

Le Lofoten oltre ad essere delle meravigliose isole sono celebri per la pesca del merluzzo, che qui arriva in banchi dal Mare di Barents per riprodursi e deporre le uova.
Da metà gennaio a fine marzo centinaia di pescherecci ne pescano a milioni. Dopo le catture il pesce viene pulito e decapitato. Poi a terra i merluzzi vengono legati a due a due e quindi appesi alle rastrelliere di legno per far sì che vento, sole e pioggia completino il lavoro di essiccazione che trasforma, dopo circa tre mesi, il merluzzo in stoccafisso.
L’Italia è il principale acquirente, e il 90% dello stoccafisso che arriva da noi viene proprio dalle Lofoten.

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Un poeta: Romano Pascutto

(San Stino di Livenza, 1909 – Treviso, 1982)

INSOGNO AZURO

Ancùo son contento, vorìa far ‘na poesia
liziera come l’è ‘sto primo sol de istà
che’l s’ha levà bonora e de bona voia
come ‘na massera che spalanca i veri
a l’aria pura. Ma la pena resta ferma,
el folio bianco, la volontà se nina
fra el far e no far,pian,pianpianìn,
in un insogno azuro. Anca mi ancùo
me sinte drento come ‘na massera
che slarga i brassi e la se senta
dopo che l’ha netà tuta la casa.

CO POCHE PAROE

Co poche paroe far poesia granda
come’l sass co s’cioca su l’acqua
e po’ conta le onde che’l manda.
No far ciasso e gnanca pianzere
come l’è le robe de ‘ sto mondo
che manco le ziga pi’ le è vere.

TEMPO DE BRUMESTEGHE

Me alze co’l scrinzèt.
Come lu me sinte picinin,
ma manco de lu contento
in ‘sto mondo cussì grando.
Lu sora ‘na rama el canta,
mi tase rampegà co fadiga
su ‘sto scaràzz de la vita
che sbrega braghe e cuor.
L’è tempo de brumesteghe,
de costioe roste de porçel
e de vin novo che speta
el Nadal par farse ciaro,
de caivi fissi che sconde
i monti e lustra i copi.
El sol riva a tera tamisà
sul formento morto de fredo.
L’è ora de pensar al caivo
Grando, co i oci se sera
Par sempre e la brumestega
Se ferma là sora ‘na piera.

I DISE

I dise che son un omo tranquilo
e ghe someie al most che boie
ne le brente, a la scorza de vida
che se spaca sora l’ocio primariol,
a la zopa de tera rosa de butoe
taiade a metà, che fùmega al sol.
Son mi busier o’st’ altri mone?
Cossa conta? L’importante l’è viver
Senza tradir el zorno che se nasse,
come vermeti che i metarà le ae.

SERA DE ISTÁ

I pra’ no basta a tegner tute l sol
che’l se ingruma al de qua de i monti
e fraca le palade, impignisse i fossi,
pica recini de oro su le foie de vida.
Un tochèt de specio roto fa ‘ na casera
E po’, vanti che vegna scuro patòch,
l’è un momento che’l mondo se slarga
e el cuor se strenze parchè ghe stemo
drento orbi e senza ae come i notoi.

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Il vescovo e il ciarlatano. Omaggio alla musica popolare

Ma da qualche tempo è difficile scappare / c’è qualcosa nell’aria che non si può ignorare / è dolce, ma forte e non ti molla mai /è un’onda che cresce e ti segue ovunque vai / E’ la musica, la musica ribelle / che ti vibra nelle ossa / che ti entra nella pelle / che ti dice di uscire / che ti urla di cambiare / di mollare le menate /  e di metterti a lottare.

[Eugenio Finardi, “La musica ribelle”, da “Sugo”, 1976]

Ha da poco compiuto un anno di vita un gruppo musicale che ha fatto dell’esperienza live la propria ragione d’essere: IL VESCOVO E IL CIARLATANO.

Questo progetto unisce già nel nome (scippato dall’omonimo saggio di psicologia di Giorgio Manganelli) le due forze che lo muovono, strettamente legate alla materia trattata: la musica popolare e cantautorale del nostro Paese, per lo più prodotta dalla fine di quel lungo decennio che parte dal 1968, e che vide l’Italia tutta, scossa da fremiti di ogni tipo. Musica che si fa veicolo di infinite istanze, con la precisa consapevolezza che non ci sono confini tra l’essere artisti e l’esercitare il diritto ed il dovere di prendere posizione, di farsi portavoce. E’ questa l’anima più seria, impegnata, rispettosa delle fonti e degli intenti. Il repertorio che propongono è molto vario da questo punto di vista: da Fabrizio De André ad Alberto Fortis, da Rino Gaetano ca Ivan Graziani, a Battiato, Fossati. Senza rinunciare ad incursioni in territori solo apparentemente più leggeri, quali pezzi di Cocchi e Renato, o di Elio e le storie Tese, per esempio. Sono canzoni che raccontano, esaltano, ironizzano, provocano, ma che mai rinunciano e dare giusta importanza alle parole, che sono, sempre e nonostante tutto, veicolo di messaggi, a volte di critica sociale.

La seconda anima è quella più giullaresca, conviviale, rumorosa ed improvvisata, spontanea, il concerto. E’ questo il momento in cui si fanno attori di un antico mestiere: usare il proprio corpo e la propria energia come catalizzatori di un momento topico dello stare insieme, il coinvolgimento totale. In poche parole, via i freni e si canta, meglio se davanti ad un bicchiere di vino rosso.
Alfieri delle proprietà terapeutiche e fraternizzanti della musica, in un crescendo di interventi ai confini dell’avanspettacolo, ogni loro esibizione si trasforma presto in una festa in cui sono tutti chiamati a contribuire. Per questo prediligono suonare in locali contenuti e “caldi” come osterie e birrerie, ed in sagre e feste paesane; il confine tra il loro spazio d’azione e quello di chi hanno davanti non ha ragione d’esistere, riconoscendo, tra il serio ed il faceto, la giusta dignità ad entrambi.

Nato come una scommessa tra amici – presto sfuggita di mano – il progetto vede coinvolti inizialmente Loris Cusan alla voce (alla sua prima esperienza in formazione, vera sorpresa in continua crescita) e Gian Marco Orsini alla chitarra (figura mitologica della  storia musicale del portogruarese, ricordiamo fra le tante la militanza nei leggendari Neurox negli anni Ottanta e nel Monica Guareschi Group nei Novanta). Il passaggio di quest’ultimo al basso acustico avviene  contestualmente all’entrata prima di Claudio Barro (compagno inseparabile di Orsini in innumerevoli avventure musicali e in quella della fondazione di Woodstock Music Village, una della realtà musicali più vive e solide d’Italia) che si posiziona alle chitarre; poi di Flavio Di Nardo (che vanta la partecipazione in molteplici ed eterogenei progetti musicali) alle percussioni; e di Michele Marchesan (dalla lunga e prestigiosa carriera bandistica) alla fisarmonica.

Ma IL VESCOVO E IL CIARLATANO è una creatura viva, in continuo divenire, per sua stessa natura aperta alla collaborazione. Niente di cui stupirsi se una sera vi troverete proprio voi dietro un microfono a cantare “…ma il cielo è sempre più blu…”.

Alzati che si sta alzando la canzone popolare / se c’è qualcosa da dire ancora / se c’è qualcosa da fare / alzati che si sta alzando la canzone popolare / se c’è qualcosa da dire ancora, ce lo dirà / se c’è qualcosa da imparare ancora, ce lo dirà.

[Ivano Fossati, “La canzone popolare”, da “Lindbergh”, 1992]

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Alla fine di un lungo viaggio… c’è sempre un viaggio da ricominciare

Che prima o poi mi sarei occupata in qualche modo di politica l’ho sempre saputo.

Per me politica significa vivere la vita cercando un significato, non lasciarsi sorprendere dagli eventi e soprattutto legarli ad un contesto, non accontentarsi del detto o scritto ma andare alle radici dell’informazione, non considerarsi come unico essere vivente del globo ma un insieme, dove la partecipazione attiva permette la crescita e a volte anche la sopravvivenza.

Sono diventata coordinatrice del Partito Democratico di Gruaro e ho trovato un gruppo di persone che mi hanno insegnato tanto, mi hanno incoraggiato e sostenuto, fino a propormi il ruolo di candidato sindaco. Persone che hanno lavorato per la comunità presenziando senza mai un’assenza ai consigli comunali, persone che hanno dato la loro esperienza per farmi crescere senza mai guardare al passato. Ringrazio tre persone per tutti. Sante, la memoria storica di Gruaro, preparatissimo amministratore, mi ha sostenuto e tuttora mi sostiene nel duro ruolo dell’opposizione. Gino, mi ha insegnato la necessità della resistenza, mi ha raccontato delle eterne e fumose riunioni, quelle dove si vinceva per lo sfinimento della controparte, a lui alla sua cultura e al suo “mondo schifoso” devo molto. E, infine, ma non per importanza, Luisella, una combattente, una donna che vive la politica con passione e lealtà.

Il periodo delle elezioni è stato intenso, totalizzante. Fatto di tante riunioni con la mia lista, di tentate alleanze e di presenze a manifestazioni con gli altri candidati sindaci dei Paesi vicini.
Ma soprattutto è stato un periodo dedicato all’incontro di più di 100 famiglie, un mese di conoscenza dei miei concittadini, senza pensare alle appartenze, con la convinzione che il comune non si amministra con i partiti ma con le persone.
Mi sono trovata a parlare di anziani e dei loro bisogni, sotto ad un albero di tiglio bevendo un bicchiere di vino, ascoltando ricordi di una Gruaro diversa, con altri ritmi e priorità.

Ho parlato con i giovani, incuriositi dalla mia idea di politica giovane e non per i giovani, spesso scontrandomi con idee in cui non mi riconoscevo, ma mai con le loro speranze. Ho incontrato giovani coppie, ho ascoltato le loro difficoltà, le loro preoccupazioni, riconoscendomi nelle loro parole. Ho parlato con donne e uomini straordinari, che non hanno perso la speranza e la fiducia nel futuro, nonostante la vita li abbia messi davanti a sfide difficile e dolorose. Uomini che gestiscono attività diverse, accomunati dallo stesso sentimento di paura per il rischio di un declino economico, ma che fanno di tutto per mantenere i posti di lavoro ai loro operai. Due sole le porte chiuse in faccia, ma che mi hanno dato ancora più energia dei tanti caffè offerti dalla famiglie che ho incontrato.

Ho conosciuto meglio il mio territorio, la gente del mio territorio.
So cosa si aspetta chi mi ha votato e non tradirò la loro fiducia. L’opposizione consiliare, che intendo portare avanti sarà puntuale nella critica, costruttiva, stimolante e propositiva, collaborando con la maggioranza affinché amministri meglio e nell’interesse di tutto il paese.

Mi aspettano anni di opposizione, un ruolo difficile, dove il mio voto non ha un peso e dove le mie proposte vengono, da alcuni, recepite con sorrisi e indifferenza.
Ma farò in modo che sia un tempo fertile, un tempo in cui si possa parlare di Gruaro e della sua gente; un’occasione, per me, di conoscere e comprendere di più questa terra a cui sono legata e per mettere insieme i futuri amministratori del nostro Comune.

“Alla fine di un lungo viaggio… c’è sempre un viaggio da ricominciare”.

Francesca Battiston, capogruppo “Cittadini di Gruaro”

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Questi anni difficili

La nostra economia è così legata al mondo che non poteva non essere pesantemente coinvolta da quanto accaduto nel 2008 con la crisi finanziaria  e la conseguente caduta della domanda globale (crollo del commercio internazionale, riduzione della produzione), già fiaccata, tra il 2007 e il 2008, dalla crescita vertiginosa dei prezzi delle materie prime.

E’ sufficiente ricordare, per aver un’idea della forza di questi legami, che circa 1/3 di quello che in Italia produciamo viene esportato e, d’altro canto, circa un terzo di quello che utilizziamo per consumi e investimenti viene comprato all’estero (dati Istat, contabilità economica nazionale). E’ come dire che su un ipotetico salario medio di 1.500 euro, 500 dipendono dalla domanda estera di nostri prodotti, e – corrispondentemente – circa 500 euro di quel salario saranno spesi per comprare prodotti e servizi costruiti e pensati all’estero.

La crisi partita da Wall Street è perciò arrivata in pieno e velocemente anche all’economia delle nostre piccole imprese, dei nostri distretti industriali, attraverso le “cinghie di trasmissione”. La prima cinghia è stata la riduzione degli sbocchi per le nostre esportazioni. Veneto e Friuli insieme hanno esportato per 24 miliardi nei primi 6 mesi del 2009 contro i 30 miliardi realizzati nei primi sei mesi del 2008: – 20% (dati Istat, contabilità economica regionale). A funzionare da seconda cinghia sono state le difficoltà di accesso al credito e il mutamento delle aspettative degli imprenditori (che hanno molta meno voglia di investire): ciò ha determinato un forte calo negli investimenti e quindi nella domanda di beni intermedi (da qui la crisi di molte piccole imprese del settore meccanico). Infine anche le imprese che producono per il mercato finale, vale a dire per i consumi finali delle famiglie, hanno dovuto fare i conti con la loro minor capacità di spesa, provocata sia dalla contrazione dei redditi di quelle famiglie (non poche) che hanno dovuto fare i conti con la perdita del lavoro per uno o più dei loro membri, sia dalla diffusione di un clima di preoccupazione per il futuro che ha indotto in molti a preferire il risparmio. Meno export, meno investimenti, meno consumi, vuol dire alla fine meno occupazione.

Rispetto ai livelli complessivi pre-crisi si può stimare che in Veneto e Friuli siano stati cancellati almeno 70-80.000 posti di lavoro, ma solo a fine anno sarà possibile tracciare un bilancio compiuto e sarà assai probabilmente peggiore rispetto a queste stime parziali. Di certo sono stati colpiti, soprattutto nella prima fase, i posti di lavoro nel settore industriale (manifattura e costruzioni): quindi lavoratori maschi e spesso stranieri. Sono aumentati i licenziamenti: nei primi 9 mesi del 2009 oltre 30.000 sono risultati i lavoratori interessati in Veneto e Friuli da un licenziamento (individuale o collettivo) e perciò inseriti nelle apposite “liste di mobilità”: più del doppio rispetto all’anno precedente.
Sono aumentate le sospensioni: nessuno sa di preciso quanti lavoratori in Veneto e Friuli siano stati collocati, per periodi più o meno lunghi, in cassa integrazione, ma si può azzardare una stima, per il 2009, di almeno 100.000 persone (dati Veneto Lavoro).

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gennaio 2010

  • 29 gennaio 2010: per il Giorno della memoria 2010: spettacolo di teatro danza “La casa delle bambole”.
  • 5 febbraio 2010: incontro con il dott. Massimo Venaruzzo su “La fisica ogni giorno della nostra vita”.

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L’oca

“Se nu ti magni i ti imboconi coma una oca!”

Questa, anni addietro, era una frase ricorrente ed era rivolta naturalmente ai bambini che non volevano mangiare. La povera oca in questione mi ha fatto sempre tenerezza, sin da quando ero piccola e mi veniva affidata, assieme alle “sorelle”, perché la portassi a pascolare dove l’erba era più tenera.
Loro mangiavano ed io restavo là seduta a guardare le nuvole e a fantasticare; ma naturalmente avevo anche  con me un centrino da ricamare per evitare di restare inoperosa (cu li man in man).
Il tempo passava loro crescevano ed io con loro; arrivava così l’autunno ed incominciava l’ingrasso.

“I ti ai da imparà a imboconà li ochi”.
Non era un suggerimento ma un ordine, al quale non avevi nessuna possibilità di sottrarti e quindi prima lo eseguivi meglio era.
La maestra di solito era una nonna o una zia “vedrana”, a me invece toccò uno zio abbastanza avanti con gli anni, grande e grosso, “un tocon di om”, e con la gentilezza di un orso che un giorno mi disse “Ven par cà! Ti vuol imparà a imboconà li ochi. Ti lu fai viodi.”

Il tono non ammetteva repliche pertanto lo seguii nel recinto delle oche e per darmi un contegno e far vedere la mia buona volontà mi misi a rincorrerne una, con l’intento di prenderla.
Al che l’omone, con un grugnito che voleva essere una risata, mi bloccò e mi fece cenno di scansarmi e “Fermiti! Si ti li fa cori cussì a se ca serf imboconali?”
E mentre diceva questo, trac, aveva già afferrato il collo lungo e piumoso dell’oca. La mia oca! Quella che avevo coccolato sin da piccola; il mio cuore si fermò… “La mia oca, no!” urlai dentro di me; ma lui, imperterrito, si avviò verso il sotpuartin, una tettoia posta a ridosso della stalla, sostenuta da pali di legno e con il tetto ricoperto da canne (ciani cargani e cianoi).

Arrivati sul posto, sempre gentilmente, si fa per dire, lo zio mi sbatté l’oca in braccio; preoccupata mi chiesi “Perché?”. Il perché fu presto spiegato: lui doveva prepararsi per il rito dell’“imboconadura”. Lo vidi mettersi un grembiule lungo e largo, fatto con avanzi di stoffa cuciti insieme, praticamente un nisuol, perché per coprirlo tutto quel suo pancione ci voleva veramente un lenzuolo.
Finita la vestizione, gettò un sacco di iuta per terra e ci mise accanto uno strano imbuto che nella parte superiore, in corrispondenza dell’imboccatura, aveva una manovella, come quella del macinino del caffè, ci aggiunse un secchio d’acqua ed uno di mais. Tutto era pronto.
Lo zio si inginocchiò e mi disse di passargli l’oca. Io gliela porsi, esitante e lui se la strinse tra le gambe. Io preoccupata esclamai dentro di me “Uddiu me la sclissa!”.

L’oca si dibatteva, ma lui le afferrò la testa e gliela tenne ferma, le aprì il becco a forza e le infilò lo strano imbuto in gola; con la mano libera raccolse un pugno di mais, lo mise nell’imbuto e cominciò a girare velocemente la manovella finché il mais non fu sceso tutto, completò l’operazione facendole ingoiare un mestolo d’acqua.
Gli feci osservare che il mais si era fermato tutto in un solo punto del collo del volatile. “Sta tenta coma ca si fa!”.
Lo zio allora con la mano libera e con la grazia infinita delle sue dita grosse come salsicce, manipolò con destrezza il collo fino a far arrivare il mais nel gozzo della povera oca. Poi, senza tanti complimenti, si alzò e con un cenno perentorio mi indicò il suo posto dicendomi: Vidin se che ti à capìt.

Io, non so perché, ma  mi sentii sollevata nel vedere che la mia oca non era più sotto quella montagna d’uomo e che adesso toccava a me: sarei stata senz’altro meno violenta… e mi venne, dalla gioia persino voglia di cantare e così feci, mi misi a cantare. La mia oca, secondo me, fu felice di quel cambio, perché mi mostrai all’altezza e in un baleno e con grande dolcezza portai a termine quella tortura.
Naturalmente l’operazione si ripeté anche nelle sere successive fino a che le oche non furono ritenute pronte, belle e grasse, per la mattanza.

Forse oggi tutto questo può sembrare crudele, ma erano comportamenti dettati dalla necessità: il grasso d’oca era pregiatissimo e veniva usato al posto del burro; il fegato poi, un boccone da re, e la carne, a cui veniva data una mezza cottura, era riposta in orci di pietra, ricoperta del suo grasso e messa sotto un metro di terra. Una vera risorsa prelibata per l’inverno e la primavera, per le famiglie numerose.

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San Lazzaro degli Armeni

Quasi di fronte all’imbarcadero di Santa Maria Elisabetta, fermata principale del Lido di Venezia, verso Ovest, si trova l’isoletta di San Lazzaro degli Armeni, definita da uno dei maggiori poeti del novecento, Aldo Palazzeschi, “isoletta venuta dall’oriente galleggiando, e rimasta incantata davanti a Venezia”.

Questa perla della laguna, trascurata in passato dalla storia e dagli uomini ma rimasta immutata nonostante il passare del tempo, è stata presa in cura e salvata dall’erosione della salsedine e dal disinteresse, da pochi monaci armeni che fecero di questo spicchio d’oriente uno dei più importanti centri di riferimento culturale e religioso per il popolo armeno.

Breve storia dell’isola:

  • 810: un abate del monastero benedettino di sant’Ilario di Fusina riceve in affidamento l’isolotto dalla Serenissima repubblica di Venezia.
  • 1182: viene trasferito l’ospedale dei lebbrosi di San Trovaso e l’isola prende il nome di San Lazzaro, protettore dei lebbrosi (vedi la derivazione del termine “lazzaretto”).
  • Fu in seguito costruita la prima chiesa, dedicata a San Leone Magno, e in seguito la chiesa attuale dedicata a San Lazzaro.
  • 1300: venne costruito un lazzaretto.
  • Prima metà del ‘500: il Senato della Repubblica vi trasferì i poveri della città, dato che i lebbrosi ospitati si erano ridotti a poche unità. Quando poi i poveri furono trasferiti a San Zanipolo a Venezia, vicino all’attuale Ospedale Civile, l’isola fu abbandonata.
  • Nei secoli successivi: comunità di religiosi vi soggiornarono per brevi periodi.
  • 1717: finalmente un nobile monaco armeno, Mechitar (che significa il “consolatore”), fondatore poi dell’Ordine dei Padri Armeni Mekhitaristi, chiede di potersi stabilire con i suoi 17 monaci (tutti fuggiti dalla persecuzione turca che imperversava ad Istanbul), con l’intento futuro di ospitare gli esuli armeni.

Un melograno, albero nazionale armeno, sarà il primo incontro quando si esce dall’imbarcadero.

Nella parte nord dell’isola si possono ammirare i bellissimi giardini che conducono ad un piccolo cimitero delimitato da file di cipressi, ulivi e cedri. Un sentiero che costeggia il muro di cinta riserva in lontananza, da un’angolazione poco conosciuta al turismo di massa, un’indimenticabile vista del bacino di San Marco. Nella parte meridionale filari di pini riparano dal vento della laguna le preziose aiuole di rose che i monaci coltivano gelosamente e il loro intenso profumo inebrierà il visitatore. Quello che più emozionerà in questo magico luogo, dove si percepisce il respiro dei secoli, sarà l’ospitalità e la simpatia con cui i monaci accolgono i visitatori, accompagnandoli alla scoperta dell’isola, dei suoi tesori e della storia del loro popolo, fornendo tutte le spiegazioni alle domande che saranno rivolte.

Alla fine della visita non resta che portare nelle proprie case un ricordo di questo splendido luogo, come ad esempio un vasetto della deliziosa e profumatissima marmellata di petali di rosa, colti al sorgere del sole, come vuole la tradizione, preparata dai monaci stessi: un piccolo, dolce assaggio del profumato e prezioso oriente.

La messa con rito cattolico armeno si celebra ogni domenica alle ore 11.00.

Mechitar:

Mechitar fece riedificare la chiesa e il convento, ingrandì di quattro volte l’isola fino agli attuali 3 ettari, raccolse importanti opere della cultura armena, tradusse in armeno moltissimi libri di scienza, letteratura, archeologia e religione. Nel 1798 viene fondato un centro poligrafico per stampare tutte queste opere soggette a traduzione, centro che per fortuna riuscì a sfuggire all’azione distruttrice anticlericale di Napoleone, poiché il centro grafico fu considerato “accademia letteraria”.

Cosa si può visitare:

  • La chiesa: in stile gotico, ricostruita nel XIX secolo, a tre navate, con abside decorata a mosaico, nella quale si svolgono suggestive cerimonie religiose; da visitare il chiostro rinascimentale con porticato.
  • Il monastero: edificato nel XVIII secolo, dove una lapide ricorda il poeta e politico inglese Lord Byron, amico del popolo armeno. Lord Byron, che soggiornò in quest’oasi di pace e qui studiò la lingua armena collaborando alla stesura di una grammatica per gli studiosi inglesi, viene ricordato in una mostra permanente.
  • Il museo: dove sono conservati reperti raccolti dai monaci o ricevuti come regali nel corso dei secoli. Si contano oltre 4.000 manoscritti armeni che vanno dal VI al XVIII secolo (la più importante e ricca collezione di manoscritti armeni dell’occidente) e molti manufatti arabi, indiani ed egiziani, tra cui la curiosa mummia di Nehmeket del 1000 a.C..
  • La pinacoteca: raccoglie opere di scuola veneta e armena del XVII e XVIII secolo. Si possono ammirare opere di Palma il Giovane e un bellissimo affresco del Tiepolo.
  • La biblioteca: contenente circa 200.000 volumi ! Pare che in un’ala segreta della biblioteca si trovi la più grande raccolta al mondo di testi di magia nera: addirittura si favoleggia che alcuni tomi sarebbero rilegati con pelle umana.

Per chi volesse visitare questo splendore ecco gli orari dei battelli. Si ricorda che c’è una sola visita guidata al giorno, che si svolge alle ore 15:00, in coincidenza con l’arrivo del vaporetto che lascia San Zaccaria alle 14:30.

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Fotografia contemporanea emergente: Valentina Brunello

All’interno del progetto Spazi Pubblici Arte Contemporanea (SPAC), la Neo Associazione Culturale, con sede a Buttrio (Ud), ha proposto a partire dal 7 novembre 2009 la mostra “Specchio Specchio delle mie Brame chi è il più Artista del Reale?”, riflessione sul recente lavoro di alcuni tra i più interessanti artisti visivi operanti in Friuli Venezia Giulia.

Per i quattro sabati consecutivi del mese di novembre, dal 7 al 28, gli appassionati d’arte contemporanea, o anche semplicemente curiosi o amanti dei siti storico-artistici della regione, hanno potuto seguire le fasi d’inaugurazione della mostra. Alcune tra le opere più significative prodotte in regione negli ultimi dieci anni sono state rivisitate nel contesto di palazzi, ville, castelli: nella settecentesca Villa Di Toppo Florio a Buttrio (Ud) dal 7 novembre al 6 dicembre, in Palazzo Orgnani – Martina a Venzone (Ud) dal 14 novembre al 6 dicembre, nel medievale Castello di S.Pietro a Ragogna dal 21 novembre al 20 dicembre e a Palazzo Locatelli (Museo Civico del Territorio) a Cormòns (Go) dal 28 novembre al 27 dicembre.

Il comune denominatore degli undici artisti presenti in mostra, al di là dell’appartenenza generazionale, di corrente, ecc, è la costante attenzione alle contraddizioni del presente e l’inequivocabile emergenza, nelle loro opere, di forti segni della contemporaneità; a presentarli, altrettanti curatori, critici, organizzatori culturali, giornalisti.

In questa direzione ho scelto di esporre il lavoro della fotografa Valentina Brunello, vincitrice nel 2008 del secondo premio al concorso ManinFesto, indetto dal Centro d’Arte Contemporanea Villa Manin di Passariano (Ud), con la direzione artistica di Francesco Bonami. L’artista nasce a Gorizia nel 1970, dove tuttora vive e lavora; parallelamente agli studi in architettura presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, approfondisce l’interesse per la fotografia, sviluppando diverse tematiche che vanno dal paesaggio al ritratto.

Sin dai primi scatti analogici in bianco e nero, la sua attenzione è rivolta principalmente ai soggetti architettonici e al paesaggio urbano; in sintonia con il proprio percorso di studi è portata ad osservare gli elementi particolari e dettagliati che connotano lo spazio delle città, e all’interazione dell’uomo con essi. Da questi concetti nascono la serie in bianco e nero Segni urbani, e quella a colori Frammenti urbani.
Se in questi primi due lavori la presenza dell’individuo è fisicamente assente, nella serie in bianco e nero Street photo, realizzata in parallelo a Frammenti urbani, le persone diventano quasi sempre le protagoniste, colte in attimi di vita nella relazione naturale con gli spazi circostanti.

Da questa ricerca rivolta all’uomo, i suoi interessi si sono indirizzati verso il tema del ritratto con la serie Ritratti (Tracce) che mostra volti e corpi sfuggenti, rarefatti ed isolati da qualsiasi contesto. Successivamente si è rivolta al ritratto di famiglia, analizzando le tematiche dei rapporti interpersonali, in particolare tra madri e figli. Proprio quest’ultimo progetto, Interno di famiglia, ha messo in risalto le doti della fotografa, portandola ad ottenere il secondo premio al concorso ManinFesto – Fotografia in Friuli Venezia Giulia del 2008 (Villa Manin Centro d’Arte Contemporanea, Passariano-Codroipo, Udine).

Il progetto nasce da una ricerca rivolta alla maternità e al rapporto che si viene a creare tra la madre e i propri figli. L’artista irrompe delicatamente nelle abitazioni private di amici e conoscenti, mantenendo un distacco rispettoso nei confronti di questi luoghi così intimi, in cui ogni oggetto e ogni spazio è il riflesso delle personalità di chi lo abita. Ne risulta un’indagine socio-antopologica sul tema della famiglia, dove è inevitabile per il fruitore spingersi a ricercare le relazioni tra i diversi soggetti ritratti, i rapporti che intercorrono tra loro e il background di ogni nucleo.

Nelle serie fotografiche realizzate dall’artista non vi è alcuna finzione nel senso cinematografico del termine, non esiste sceneggiatura, non vengono create delle sovrastrutture ideologiche; vi è una sensibile aderenza alla realtà, in una narrazione che non può essere compresa e vissuta se non per esperienza diretta. Un genere di analisi documentaria, che testimonia la consapevolezza e l’attenzione della fotografa alla riflessione sul proprio tempo.

Una maturità artistica quella di Valentina Brunello alimentata da una naturale e costante ricerca, che è in primo luogo una risposta ad una necessità ed esigenza personale; in equilibrio tra introversione e disincanto si relaziona con curiosità allo spazio che la circonda e a come questo diventi habitat e specchio dell’uomo, in un continuo e perenne scambio a cui nessun individuo può sottrarsi.

Documentazione on line:
per la mostra: www.spacfvg.it
per l’artista: www.valentinabrunello.eu

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